“Ho letto ‘Cent’anni di solitudine’ Márquez in tre giorni quando avevo 16 anni, durante un’influenza molto forte, ed è stato come se il caldo della febbre l’avesse inciso a fuoco dentro di me. Mi è entrato sotto pelle, e solo dopo tanti anni sono riuscita a decodificare il codice che mi aveva lasciato dentro, e che si è materializzato in un ragazzo, il protagonista de ‘L’istante largo’…”. Sara Fruner, anche autrice di poesie, racconta a ilLibraio.it il suo romanzo d’esordio, “Il mio Macondo è la personificazione della solitudine”, L’intervista

E chi l’ha detto che gli incontri digitali sono più freddi, distaccati e impersonali di quelli dal vivo? Quella con Sara Fruner è stata una conversazione calorosa e festosa, proprio come il suo romanzo d’esordio, L’istante largo, uscito per Bollati Boringhieri.

Sorriso dolce, modi accoglienti e risposte generose: l’autrice, trentina d’origine e felicemente newyorkese d’adozione, non si risparmia durante la chiacchierata su Zoom con ilLibraio.it, e descrive la sua prima opera in prosa con una cascata di immagini che richiamano un mondo onirico e sfumato – del resto Fruner, oltre a essere docente d’italiano presso la New York University e il Fashion Institute of Technology (“insegnare italiano all’estero è la cosa migliore che ti possa capitare, è un modo per rimparare l’amore per la propria terra”), è poetessa, e ha già all’attivo due raccolte di versi (in inglese e in italiano): L’istante largo è un testo stratificato, “da leggere come un haiku o come un compendio letterario“, insomma come vuole il lettore, lasciandosi trasportare in una rete fitta di rimandi e riferimenti letterari.

Quelli della scrittrice sono evidenti fin dal principio: il protagonista di questa storia infatti si chiama Macondo, nome che riporta immediatamente all’opera di Gabriel García Márquez, Cent’anni di solitudine.
“Ho letto il romanzo di Márquez in tre giorni quando avevo 16 anni, durante un’influenza molto forte, ed è stato come se il caldo della febbre l’avesse inciso a fuoco dentro di me. Mi è entrato sotto pelle, e solo dopo tanti anni sono riuscita a decodificare il codice che mi aveva lasciato dentro, e che si è materializzato in un ragazzo”.

Un adolescente dall’intelligenza fuori dal comune, che non ricorda nulla delle sue tre madri, e che vive con una nonna che non parla.
“Macondo è la personificazione della solitudine”.

Impossibile non risentire nello stile e nel percorso di formazione del protagonista, un’eco chiara dell’opera dello scrittore sudamericano. Tanto che, appena concluso il libro, viene voglia di riprendere in mano l’opera di Márquez.
“Per me non ci sarebbe niente di più bello che riuscire a seminare un po’ di curiosità e condurre i lettori più giovani, attraverso il mio romanzo, a quello di Márquez”.

E lei, da giovane, quali romanzi leggeva?
“Dostoevskij, Thomas Mann, Hermann Hesse, e probabilmente non ne capivo granché. Ma questo è il bello dei classici: ti scavano dentro in modi che tu non sai, e poi, improvvisamente, escono allo scoperto”.

E diventano arte.
“Certo. La mia arte è stata influenzata da personalità come Bolaño e Isabel Allende, solo per citare due tra i più importanti. Ma anche la pittura di Frida Kahlo, il cinema e la musica hanno avuto un ruolo fondamentale: tutto finisce in un serbatoio di creatività dal quale attingo per scrivere”.

Così nasce la letteratura.
“E il bello della letteratura è che può regalarti l’incontro con i personaggi”.

Lei dai suoi personaggi cosa ha imparato?
“Dai personaggi si impara sempre molto. Per esempio ho imparato tanto da Consuelo, una figura androgina e schiva, il genere di eroina che sopravvive in un deserto addentando un cactus. Ma anche da Maya, una vera forza della natura, una bellezza di baci e botte, una donna indomita e intrattabile. E poi ancora da Doriana, che pare scesa giù da un Tintoretto, una donna materna, morbida e sdrammatizzante. Ecco, queste tre figure mi hanno mostrato come l’unione e la solidarietà tra donne possa creare qualcosa di meraviglioso, come Macondo”.

E a proposito di forza creativa, come cambia il suo lavoro quando scrive versi e quando invece si dedica alla prosa?
“Uno poeta ci nasce. Essere poeta è un modo speciale di accostarsi alla vita, pensare tutto in metafora. Questo è facile quando scrivi poesia, ma quando ti confronti con la prosa…”

Cosa succede?
“Bisogna lavorare di fino”.

Quindi scrivere versi è più una questione d’ispirazione?
“No, io non credo affatto al mito dell’ispirazione. La penso però come diceva il poeta Valéry: gli dei ti danno un verso, e poi tu fai tutto il resto. In generale il lavoro della scrittura è sempre disciplina e sacrificio. Ma è importante che non manchi mai l’elemento della gioia, del gusto e del desiderio. Perché senza desiderio, che gusto c’è?”.

Infatti ne L’istante largo sembra che si sia divertita a sperimentare generi e stili diversi attraverso tanti canali espressivi, come le mail, le pagine di giornale, i bigliettini…
“Per me è essenziale non dimenticare mai il lato ludico della scrittura e giocare con le possibilità della lingua”.

Una lingua estremamente musicale, lirica ed evocativa, di cui il titolo del romanzo è piena rappresentazione.
“Se io dovessi spiegare la consapevolezza, l’illuminazione, la comprensione, lo farei rappresentando qualcosa che si allarga. Cosa facciamo noi quando abbiamo un’intuizione? Sgraniamo gli occhi, apriamo la bocca, allarghiamo il sorriso. Ecco cosa significa il titolo che ho scelto”.

E ovviamente L’istante largo è il tassello che permette di sciogliere il senso di tutta la storia…
“Sì, ma adesso non spoileriamo troppo!”.

Mentre l’epigrafe: ‘Da un campo nero una foglia verde’?
“Credo che l’epigrafe racchiuda il senso profondo di questa storia: riuscire a trovare una foglia verde nell’oscurità. Magari a una prima occhiata il mio può sembrare un romanzo dolce e gioioso, ma in realtà il dolore è centrale nella narrazione. Tutti i miei personaggi vivono la sofferenza, e per quasi tutti c’è una speranza di felicità. Anche la copertina, illustrata da Sofia Paravicini, interpreta allegoricamente questo concetto”.

Sta lavorando ad altri progetti? 
“Non smetto mai di scrivere. Sono già a lavoro su alcune poesie, un romanzo e un altro progetto piuttosto ambizioso”.

Quale sarebbe?
“Un poema epico in quaranta canti che ormai è praticamente finito e che spero davvero possa arrivare ai lettori”.

In un articolo di D di Repubblica la citano tra autrici divise tra più città, che hanno scelto di scrivere in lingue diverse dalla loro lingua madre. Nel suo caso perché ha sentito questa necessità?
“Ho sempre studiato e amato l’inglese. Mi sono laureata in inglese a Ca’ Foscari, e ho preso la specializzazione in traduzione letteraria. Quindi diciamo che l’inglese è la mia candy language. Mi piace sentire il suo sapore dolce in bocca, soprattutto perché riesco a esplorare zone che la lingua italiana non mi permette di sondare. Sono due esperienze diverse. Ho un amore bigamo, per così dire. Voglio coltivare entrambe queste due possibilità che mi permettono di perlustrare dei territori completamente diversi”.

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