“La fabbrica”, esordio di Joanne Ramos, si svolge a Golden Oaks, un “resort” per madri surrogate. Nel romanzo l’autrice non giudica la maternità surrogata in quanto tale, ma indaga le sfaccettature di una decisione che può avere diversi esiti (e significati) a seconda delle persone coinvolte, della loro etnia e della loro classe sociale… – L’approfondimento

Golden Oaks è un “resort” di campagna in cui le madri surrogate si trasferiscono durante i nove mesi di gestazione. Lì, le donne, avvolte in abiti di cachemire, si rimpinzano di super food, fanno attività e sono monitorate giorno e notte. Tutto questo è necessario per assicurare che i feti crescano e si sviluppino in modo ottimale, così da diventare i bambini perfetti di coppie benestanti che hanno pagato migliaia di dollari per avverare il loro sogno, diventare genitori.

In questo ambiente controllato si svolge La fabbrica (traduzione di Michele Piumini, Ponte alle Grazie), il romanzo d’esordio di Joanne Ramos (in copertina fotografata da John Dolan, ndr).

Nel romanzo Ramos non giudica la maternità surrogata in quanto tale, ma indaga le sfaccettature di una decisione che può avere diversi esiti (e significati) a seconda delle persone coinvolte, della loro etnia e della loro classe sociale.

Al centro de La fabbrica c’è il controllo che le donne possono esercitare sul loro corpo. E che inevitabilmente dipende da classe e etnia.

La maggior parte delle madri surrogate a Golden Oaks sono caraibiche o filippine, alcune di loro polacche e russe. Le americane caucasiche sono così rare da essere ospiti speciali. I loro clienti sono quasi sempre bianchi, estremamente benestanti che vivono a New York o in qualche altra grande città.

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Joanne Ramos, figlia di immigrati filippini che ha frequentato Princeton, ha lavorato per Morgan Stanley e poi, dopo aver frequentato la Harvard Business School è diventata una giornalista finanziaria, nella postfazione del romanzo racconta di aver iniziato a immaginare la storia dopo essere diventata madre. Quando portava i suoi figli al parco giochi, tutte le altre donne filippine che incontrava erano domestiche o tate.

Ramos ha iniziato a indagare come nella nostra società tutto quello che non è pagato, ad esempio la maternità, diventi invisibile. A meno che venga affidato come lavoro a qualcun altro. E si è chiesta cosa succede alla gravidanza quando diventa – anche – una transazione economica.

Ne La fabbrica quello che risalta è lo scollamento tra due mondi: da un lato quello delle donne che vivono negli Stati Uniti e lavorano come tate, domestiche o madri surrogate per mandare i loro risparmi alle famiglie lontane; e dall’altro quello delle loro clienti, ricche, americane che per conformarsi alle aspettative sociali hanno bambini di cui però spesso non vogliono o non possono prendersi cura perché impegnate a dedicarsi alla carriera o alla vita sociale.

Le protagoniste principali sono due madri surrogate con due storie molto diverse: da un lato Jane, ventenne filippina con una bambina e senza un soldo; dall’altro Reagan, discendente di una facoltosa famiglia che vuole dedicarsi alla fotografia. Se per Jane la maternità surrogata è chiaramente uno strumento per mettere da parte i soldi necessari per iniziare la sua vita negli Stati Uniti, per Reagan invece è un modo per diventare economicamente indipendente dal padre, ma è anche un atto di generosità verso una donna sconosciuta che non può avere figli.

A controllare le madri surrogate c’è Mae, la direttrice di Golden Oaks: figlia di un immigrato cinese, ha frequentato Harvard e finalmente ha raggiunto la vetta della piramide che suo padre ha provato a scalare, invano, per anni. Mae è cosciente dei rischi che si celano dietro un’attività come Golden Oaks e non si fa scrupoli a sfruttare il bisogno di denaro delle ospiti e la mania di controllo dei clienti. Alcune sue insicurezze la rendono umana, anche se è difficile provare empatia per lei, più preoccupata di scegliere i fiori per il suo matrimonio che di permettere a Jane di rivedere la figlia.

Le relazioni tra le tre donne ospiti di Golden Oaks, oltre ad alcune figure della loro vita prima della maternità surrogata, si intrecciano per raccontare come una esperienza comune causi conseguenze diverse a seconda dell’identità della persona coinvolta. 

Il risultato è una storia estremamente verosimile, dove il benessere degli individui viene messo in secondo piano dal denaro.

 

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