“In quanto poeta, era una creatura impoetica, un camaleonte capace di mettersi in dubbio, di abbandonarsi al mistero e alla confusione intellettuale per riuscire ad afferrare una visione di Bellezza artistica. Questa sua capacità è ciò che lo rende un classico” – In occasione del bicentenario della morte del poeta John Keats (Londra, 31 ottobre 1795 – Roma, 23 febbraio 1821), Benedetta Carrara racconta su ilLibraio.it uno dei protagonisti del Romanticismo

“Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”, sosteneva Italo Calvino. Ma sempre più spesso, quando si parla di classici, si fa riferimento alla prosa. Certo, capita che le liste di libri imperdibili prevedano uno o due volumi di versi, magari Dante Alighieri, ma raramente vanno più in là. Ed è anche giusto, considerato che la maggior parte dei lettori legge soprattutto romanzi.

La poesia sembra più difficile, decisamente impegnativa, e per gran parte della sua storia è stata ingabbiata in una fitta rete di regole, eccezioni, figure retoriche e schemi rimici che ci comunicano, nella maggior parte dei casi, poco o nulla. Inoltre, la poesia epica, come anche quella lirica, fa sempre riferimento a delle tradizioni e a dei simboli condivisi dalla società: ciò che era chiaro a un lettore dell’antichità o a uno del XIX secolo non è necessariamente chiaro a noi, ed è per questo che la poesia spesso ci appare inconciliabile con il mondo moderno, con la vita del XXI secolo. Ma lo è davvero?

C’è un giovanotto inglese, scomparso ormai 200 anni fa, che ha scritto versi che ancora oggi riescono a toccare la nostra anima: John Keats (Londra, 31 ottobre 1795 – Roma, 23 febbraio 1821).

Nato a Londra nel 1795, Keats condusse una vita segnata fin dalla gioventù dalla tragedia: il padre morì nel 1804 a seguito di una caduta da cavallo e la madre, che aveva affidato i figli alla nonna per potersi risposare, morì di tubercolosi nel 1810. Non potendo permettersi una scuola prestigiosa come Eton, Keats frequentò dapprima la scuola del professor Clarke, avvicinandosi così allo studio della letteratura italiana e alla musica, per poi proseguire la propria formazione in ambito medico al Guy’s Hospital. Quasi giunto al termine dei suoi studi, però, decise di mettere da parte il bisturi, e seguire la sua vera vocazione: la poesia.

una cosa bella benedetta carrara john keats

Nonostante diversi suoi colleghi scrittori lo stimassero, la carriera di Keats non fu facile, soprattutto dopo la pubblicazione del suo poema Endymion. Lo stesso scrittore, in realtà, riconosceva di aver scritto un’opera non priva di immaturità. Le critiche che ricevette, però, furono a dir poco caustiche: sul Blackwood’s, Lockhart, il genero di Walter Scott, lo tacciò di “imperturbabile, perfetta idiozia”, mentre Crocker, nella recensione che firmò per il Quarterly, ammise di non aver nemmeno finito il libro, e disse che nessuno sano di mente avrebbe mai osato firmare una simile rapsodia col proprio vero nome.

Non solo le critiche tormentavano lo spirito e il corpo del giovane poeta: le ristrettezze economiche, dovute anche all’insuccesso, gli impedirono di sposare la sua amata Fanny Brawne, e la tubercolosi lo portò fino in Italia, nella speranza di poter sopravvivere. Speranza che si rivelò vana: Keats morì il 23 febbraio 1821, a soli venticinque anni.

Ma perché questo poeta nato sotto una sventurata stella merita di entrare nel novero degli autori classici? Perché continuiamo, oggi, a leggerlo e rileggerlo?

Keats ha avuto una vita e una carriera incredibilmente brevi. La sua produzione, infatti, è in gran parte concentrata nel 1819, anno di felicità artistica e personale a cui si devono quasi tutte le sue opere più note, tra cui Ode on a Grecian Urn, Ode to a Nightingale Bright Star, poesia che dà il titolo al film di Jane Campion e alla biografia di Elido Fazi.

Cogliendo elementi del mondo grecoromano – ad esempio Psiche, protagonista di un’ode – ma anche del folklore inglese – come la figura della “belle dame sans merci”, debitrice delle ballate medievali tra cui Lord Randall – Keats sviscera i sentimenti dell’animo umano: il desiderio di possedere Amore, Bellezza e Felicità, e al contempo la paura e la consapevolezza dell’inevitabilità della morte. Questo conflitto tra ideale e reale, tipicamente romantico, viene descritto dall’autore in modo sublime non solo nei versi, ma anche nelle lettere private a Fanny Brawne: un concentrato di amore, devozione, gelosia, impotenza davanti alla malattia.

La ricchezza emotiva di Keats ha quindi una base personale. E ciò ben si concilia con la sua concezione di poesia: un’arte che deve nascere spontaneamente come le foglie sugli alberi, oppure non nascere affatto. Del resto, cosa più del sentimento ci rende spontanei nello scrivere?

Allo stesso tempo, tuttavia, non bisogna cadere nell’errore di considerare la poesia di Keats un mero sfogo di dispiaceri personali. In quanto poeta, era una creatura impoetica, un camaleonte capace di mettersi in dubbio, di abbandonarsi al mistero e alla confusione intellettuale per riuscire ad afferrare una visione di Bellezza artistica. Questa sua capacità è ciò che lo rende un classico. Quando parla dell’amore, del dolore, della morte, della speranza, lui non è John Keats. Lui è un poeta. E come poeta è un saggio, un medico per l’anima di tutti.

I suoi contemporanei non riuscirono ad andare oltre l’ingenuità delle prime opere – opere a tratti poco organiche, ma con sprazzi di delicata genialità – ma noi possiamo ora cogliere pienamente l’universalità dei suoi versi. E, nonostante lui credesse di essere solo uno il cui nome fu scritto nell’acqua, come volle far incidere sulla sua lapide, noi oggi possiamo dire con certezza che scrisse qualcosa di bello, e che “una cosa bella è una gioia per sempre/ cresce di grazia, mai passerà nel nulla”.

L’AUTRICE – Classe 2000, Benedetta Carrara vive a Son­drio e frequenta la facoltà di Lettere all’U­ni­versità di Pavia. Autrice di articoli e racconti, editor per la rivista Efemera, amante del teatro, ha esordito con un atto unico teatrale di forte impatto e­mo­tivo: Una cosa bella (Divergenze, 2020), volume curato da Federico Fiore e Angela Di Maso, e realizzato su cartoncino ecologico FSC e carta Arena Ivory Bulk extralusso.

L’opea è ambientata nel 1821 a Roma, dove, tormentato dalla paura dell’oblio e dai rimorsi, John Keats dialoga con l’amata Fanny Brawne in un intreccio di prosa e poesia, che parla di abbracci sospirati e mai raggiunti tra l’artista e la sua musa. Ormai prossimo alla morte, infatti, il poeta si trova in compagnia dell’amico Joseph Severn, di due anni più giovane di lui. Da quest’ultimo viene assistito nella speranza di recuperare la salute, oltre che aiutato con la corrispondenza e le recensioni delle sue opere già pubblicate. Amareggiato dalle esperienze già affrontate, però, Keats si dichiara deluso da certe dinamiche editoriali e dei suoi critici, e non ha nemmeno più il desiderio di scrivere alla sua fidanzata. Eppure, in un dialogo a distanza sempre più fitto e sempre più onirico, le dà l’estremo saluto prima di esalare l’ultimo respiro.

 

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