In “Klara e il sole”, il primo romanzo dopo la vittoria del Premio Nobel nel 2017, Kazuo Ishiguro porta avanti la riflessione accurata e dolorosa di ciò che vuol dire essere umani, attraverso la rappresentazione di ciò che umano non è. Ambientata in un’America pandemica, la narrazione si dispiega attraverso gli occhi di Klara, un AA – Amico Artificiale, androidi acquistati dai genitori per tenere compagnia ai figli che vivono isolati gli uni dagli altri, studiano in casa, sono tormentati dallo spettro della solitudine… – L’approfondimento

Una voce pura e meticolosa, un futuro distopico non troppo lontano, l’attesa angosciosa di una rivelazione sinistra: nel suo primo romanzo dopo la vittoria del Premio Nobel nel 2017, Kazuo Ishiguro porta avanti la riflessione accurata e dolorosa di ciò che vuol dire essere umani, attraverso la rappresentazione di ciò che umano non è.

Klara e il Sole

Klara e il Sole (titolo originale, Klara and the Sun, pubblicato da Einaudi e tradotto da Susanna Basso) si dispiega attraverso gli occhi di Klara, un AA – Amico Artificiale, androidi che i genitori acquistano per tenere compagnia ai propri figli, in attesa che arrivi il momento di andare al college. Klara viene scelta da Josie, una bambina di quattordici anni che, però, l’avverte subito: “Certi giorni non sto tanto bene. Potrebbe succedere qualcosa. Non so bene cosa. Non so nemmeno se è brutta o no”.

Se c’è un aspetto in cui il romanzo si dimostra brillante, è proprio la voce narrante. Una prima persona carezzevole, acuta e innocente: Klara è curiosa come una bambina, perspicace come un’adulta e neutra come una macchina.

Fraziona la realtà in “riquadri”, non è fluida nei movimenti, si alimenta con la luce del Sole e al Sole si rivolge come a una sorta di divinità. La sua identità oscilla tra amica ed elettrodomestico. Vivere il mondo attraverso di lei significa vivere un’esperienza altra, letteralmente non umana.

Dal suo punto di vista limitato e limitante, vanno delineandosi i contorni di un’America pandemica, in cui i bambini vivono isolati gli uni dagli altri, studiano in casa, sono tormentati dallo spettro della solitudine. L’unica cura, intessere relazioni con il proprio AA – “sei la mia AA. Dobbiamo essere amiche per forza, no?”.

Il contesto prende forma tassello dopo tassello. Piccoli indizi ci segnalano che sotto la superficie piana della voce di Klara si agita qualcosa di oscuro – è sufficiente la richiesta della Madre, “Ti spiacerebbe farmi vedere come cammina Josie?” – a risvegliare un’inquietudine familiare, la stessa che in Non Lasciarmi anticipa l’orrida rivelazione.

Traspare una realtà disturbante, che affonda le radici nel genere fantascientifico senza che la fantascienza diventi mai la priorità: nel futuro narrato, i genitori scelgono di “potenziare” i propri figli, sottoponendoli a un editing genetico non privo di rischi. La sorella di Josie ha perso la vita, Josie stessa è malata ed è costretta a letto per settimane. È l’era post-industriale, in cui lo sviluppo della tecnologia ha reso gli esseri umani non più necessari – “Prima ci rubano il lavoro. Ora anche il posto a teatro?” –, è la protesta di una signora alla vista di Klara.

Il confine tra persone e macchine è labile. Il Padre di Josie, ingegnere che ha perso il lavoro con il diffondersi della robotica, parla di quanto le “sostituzioni” siano la cosa migliore che gli sia capitata; la Madre ribatte: “Eri un’eccellenza. Come può essere giusto che nessuno possa utilizzarti?”. L’essere umano come risorsa da utilizzare; androidi costruiti per imparare a essere umani.

“Non si sa mai come comportarsi con un ospite come te”, dice una donna, quando conosce Klara per la prima volta. “Non è nemmeno sicuro che di ospite si possa parlare, no? Che faccio, ti tratto come un’aspirapolvere?”. È il momento in cui ci scontriamo con la finitezza di Klara: per quanto assomigli a un essere umano, per quanto riesca ad apprenderne le emozioni e ad analizzarne i comportamenti con una lucidità aliena, possiamo dimenticarci che si tratta di un robot? E, se sì, allora cos’è che rende una persona, una persona?

La discussione si articola in dialoghi complessi nella loro semplicità. Il linguaggio è piano e accessibile – restituisce un’immagine di purezza, come pura è Klara – ma riesce ad assolvere la sua principale funzione: sviscerare il tema fino all’osso, con la delicatezza di un bambino. E così, mentre Mr. Capaldi sottolinea che è ora di lasciar andare la parte di noi “che si ostina a voler credere che ci sia qualcosa di inaccessibile dentro ognuno di noi. Qualcosa di unico e non trasferibile”, il Padre insiste sull’esistenza del cuore umano “in senso poetico”; qualcosa che ci renda “unici e straordinari”.

Io credo di avere tanti sentimenti. Più cose osservo, e più acquisisco accesso a nuovi sentimenti”, sostiene Klara. Non sta affermando di essere una persona, e neanche di avere un’anima – è una macchina, e non smetterà mai di esserlo – ma di avere l’intelligenza necessaria per scansionare l’animo umano e farlo suo. Posto che il cuore umano assomigli a “una casa a tante stanze”, per quanto numerose le stanze possano essere, “deve esserci una fine a quanto occorre imparare“.

Ed ecco che, con una grazia che non ha paragoni, Ishiguro racconta Klara che impara ad amare. Racconta il suo spirito di sacrificio, la gentilezza, la bontà, l’affetto che prova non soltanto per Josie, ma per tutte le persone che incrocia. Disseziona le emozioni umane, le sfilaccia, alla ricerca di ciò che dell’essere umano non può essere appreso. A essere sotto osservazione non è l’etica della tecnologia, così come non lo era in Non Lasciarmi. Del mondo di Klara e il Sole non sappiamo tutto, soltanto quanto basta per seguire lo scrittore in un’eccezionale indagine di noi stessi, che si serve dei robot per parlare di noi.

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