La cesura tra “La Fortuna” e gli altri libri di Valeria Parrella è solo apparente, perché ci sono echi dei testi teatrali e soprattutto certi modi della narrazione – che rendono indimenticabili personaggi secondari o che partono da descrizioni chirurgiche, ad esempio – sono quelli a cui l’autrice ci ha da sempre abituato, e il linguaggio ancora più del solito è il modo per raccontare il vero…

Lucio ha un desiderio e ha un rango che non gli permette di credere fino in fondo a quel desiderio.

In La Fortuna (Feltrinelli), il nuovo romanzo di Valeria Parrella, Lucio racconta in prima persona la sua storia, misurando costantemente la capacità di fare qualcosa rispetto alla possibilità di arrivare a un obiettivo per la sua vita. Questo rapporto affronta dei livelli obbligati: la parziale cecità, l’aspettativa familiare nei suoi confronti, la visione paterna in cui deve trovare spazio il compromesso tra ciò che manca – il desiderio appunto di governare una nave – e ciò che quasi certamente avrà – una carriera politica.

Ciò che muove Lucio fin dal principio di questo romanzo è poter avere un’opportunità, una sola occasione per dimostrare a suo padre e a sé stesso di essere capace, di raccogliere dunque un destino. Narra la sua storia in prima persona e lo fa portandoci dentro un mondo molto lontano di cui ci sono arrivati echi e rimbombi e documenti ufficiali ma che lui sa proporci togliendo loro il velo della Storia.

Quasi sussurra Lucio quando dice: “Caduto il mantello, lasciato il cavallo, dimenticato Cesare, nessun ragazzo addestrato alla spada sognava il senato. I soldi del senato sì, i suoi matrimoni, le sue case, la sua gloria. Ma dentro i muscoli che si formavano, in quella smania che ci prendeva alle prime ore della mattina, e ogni volta che ungevamo di olio, in ogni posto del nostro corpo, muti, in silenzio, senza poterlo dire neppure a quei padri che forse avevano percorso anni addietro i nostri stessi sogni: noi tutti eravamo solo marinai o gladiatori“.

Valeria Parrella scrive un romanzo storico, affondando la trama dal 62 al 79, in diciassette anni che hanno cambiato la vita e morfologia della zona attorno al Vesuvio e questo periodo corrisponde alla vita di Lucio, un ragazzo esemplare della Pompei che fu, dove cresce prima di essere costretto a studiare a Roma, alla scuola di retorica di Quintiliano.

Lucio ha amici, coltiva la fascinazione del mare, delle navi, e la sua esistenza ruota attorno alla natura – ancora più di prima quando arriva a Roma – perché non riesce a liberarsi dall’urgenza del desiderio che lo accompagna. La natura è quella che lo priva di un occhio, che lo fa nascere mentre trema la terra, che gli concede un’inclinazione naturale verso il mare; la natura che quasi lo guida di nascosto tra le tavole della scuola e nella relazione con Aulo.

Prima di arrivare a Roma, però, Lucio compie due viaggi, uno emotivo e uno fisico e in entrambi i casi c’entra il mare. Il primo è il risultato di un favore che il ragazzo chiede a Cassio, un amico di famiglia, che gli fa conoscere un marinaio cieco. Il percorso è solo suo, la famiglia non lo sa, somiglia all’ultimo desiderio del condannato a morte, mentre il secondo è quello che compie insieme al prefetto della flotta di Miseno, al quale viene affidato per arrivare a Roma.

In entrambi questi casi, Lucio coltiva due memorie che gli serviranno per il proseguo della sua vita, a cui ritornerà spesso, anche mentre studia, per misurare la vita che gli si para davanti.

“Quando Quintiliano ci spiegava come costruire in ordine un discorso ci diceva che per funzionare deve essere come il corpo umano: […] Invece io immaginavo la mia nave. L’esordio era la chiglia […] Per la narrazione costruivo una buona deriva accresciuta. Al momento dell’argomentazione poggiavo le tavole del ponte e le inchiodavo sui bagli. E per conclusione ci aggiungevo un rostro”.

La vita di Lucio inizia con un tumulto e prosegue in tensione, come un sasso sul laccio di una fionda, e la narrazione che accompagna il romanzo segue un andamento fatto di cerchi concentrici: il primo è quello più largo, quello più lontano nel tempo e man mano che la storia prosegue, anche i cerchi si fanno più stretti e la scelta si assottiglia, così come si assottigliano i piani del romanzo, finché si arriva al suo fulcro.

La nascita esiste per testimoniare un prima, mentre il momento in cui Lucio avvera il suo desiderio si forma per accreditare una vita al di sopra delle aspettative e nel mezzo succedono le cose, Lucio si afferma, si convince, cerca le sue esperienze, si educa e di forma, sempre continuando a misurarsi con un prima certo e un dopo incerto.

“Non c’è altra strada infatti per chi non appartiene del tutto al proprio mondo che tradirlo in qualche sua parte”: Lucio racconta la sua storia in prima persona, lo fa come spettatore della sua nascita e poi cercando una causa costante a cui immolare la sua vita, partendo dal suo più grande desiderio: quello di governare il mare, di diventare un eroe con coraggio.

Valeria Parrella narra le vicende del suo protagonista infilate nella Storia e scrive una premessa al racconto racchiusa dentro il prologo, in cui troviamo una voce che sta viaggiando per mare, forse è il mare stesso che parla, che narra di rotte e nuvole e orizzonti di costa. Nel prologo troviamo un punto fermo che è fondamento della storia, una sorta di patto da accettare per andare avanti. Parrella scrive: «[…] ci sono due modi di vivere: uno è avere sempre paura. Arrischiarsi il meno possibile, chiudersi in casa, fare sempre gli stessi movimenti […] Oppure guardare verso la paura e dire: “Mi fa paura quella cosa lì. Quel pezzo di vita. Quella scelta […] Ognuna di queste paure dice sempre la stessa cosa: ci ricorda che non siamo dei e che possiamo morire.»

La Fortuna è un romanzo che indaga il potere del destino sulle scelte, la paura di affrontarle: le decisioni di Lucio si rivelano un modo per sopravvivere.

La cesura con i lavori precedenti, inoltre, è solo apparente, perché ci sono echi dei testi teatrali e soprattutto certi modi della narrazione – che rendono indimenticabili personaggi secondari o che partono da descrizioni chirurgiche, ad esempio – sono quelli a cui Valeria Parrella ci ha da sempre abituato, e il linguaggio ancora più del solito è il modo per raccontare il vero.

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