C’è un dolore sordo e primordiale che attraversa le pagine del libro d’esordio di Bibbiana Cau, “La levatrice”, ambientato nella Sardegna rurale del primo Novecento. Una storia fatta di sangue e silenzi, di urla e pudore. Al centro del romanzo, il corpo femminile, che non è mai solo corpo: è memoria, è madre che è stata figlia, è ferita che si tramanda. Intorno a Mallena, levatrice nei paesi dell’entroterra, prende forma un microcosmo animato da saperi antichi e da un lavoro di cura che per secoli è rimasto invisibile…

C’è un dolore sordo e primordiale che attraversa le pagine de La levatrice, romanzo d’esordio di Bibbiana Cau pubblicato da Nord. Un dolore antico, necessario, che affiora nel silenzio delle case di pietra, nei corpi delle donne, nelle urla trattenute durante un parto. È la voce delle madri e delle figlie, di chi ha sempre vissuto la vita dal lato più ruvido, là dove la carne si apre e la storia si ripete.

Copertina del romanzo d'esordio di Bibbiana Cau, "La levatrice"

Ci sono poi le mani. Mani che curano, che stringono, che accolgono la vita e la morte. Mani di donne che non hanno mai avuto il lusso di sottrarsi alla fatica. Mani come quelle di Mallena, levatrice nei paesi dell’entroterra sardo, al servizio del mistero più radicale che esista: la nascita.

Sin dalle prime pagine, la scrittura di Cau si fa densa e concreta, e ci immerge in una realtà fatta di fango, pioggia, dolci di mandorle e miele, infusi alla menta. Di sangue e silenzi, di urla e pudore. Il corpo femminile è al centro, ma non è mai solo corpo: è memoria, è madre che è stata figlia, è ferita che si tramanda come un’eredità muta eppure viva.

In questo paesaggio aspro, che sa di terra e di muschio, Mallena si muove con la risolutezza di chi non ha mai avuto scelta. È una “strega buona”, capace di domare la paura con un impacco alle erbe o un tocco al momento giusto. Lavora sempre, in ogni condizione, per ogni donna. Senza orari, senza compenso, senza nemmeno il riconoscimento minimo da parte dello Stato: “Si può sapere che devo fare per essere pagata?”, urla a un impiegato dell’ufficio nascite. È il grido di tutte le donne che, nei secoli, hanno servito senza essere viste.

Cau costruisce attorno a Mallena un microcosmo femminile pulsante, pieno di contraddizioni e verità scomode. La levatrice è sì un romanzo sulla nascita, ma anche un romanzo sul legame viscerale tra donne, su quella frattura mai del tutto rimarginata che spesso si genera proprio lì dove la vita dovrebbe ricominciare. A un certo punto, Rosa, la figlia di Mallena, le rinfaccia di non esserle stata accanto nel momento del menarca, di aver sempre messo le altre donne prima di lei. E Mallena, sentendo quel rimprovero, torna bambina: ripensa a sua madre, morta di parto, ne ricorda il volto, le carezze, la gentilezza. E capisce quanto ogni madre sia figlia, e ogni figlia, forse, destinata a ripetere i passi di chi l’ha preceduta.

Nel cuore di questa narrazione privata emergono anche le cicatrici della Storia: Jubanne, il marito di Mallena, è tornato dal fronte con una gamba amputata, l’ennesimo corpo rotto dalla guerra. Ma anche le donne, rimaste indietro a sostenere la vita, portano le loro mutilazioni, invisibili ma profonde. Parti finiti male, ragazzine che invocano aiuto con il ventre già segnato dalla violenza, madri che avrebbero voluto mettere al mondo maschi pur di non condannare le figlie allo stesso destino di soprusi.

La Sardegna che l’autrice ci restituisce non è uno sfondo folklorico, ma un personaggio essa stessa. Un’isola solida, odorosa di resine, avvolta da una lingua che oscilla tra il dialetto e l’italiano letterario, mai caricaturale o esotica. La prosa di Cau ha una raffinatezza cruda, che sa indugiare nella descrizione senza rallentare il ritmo, una scrittura che ama la materia e la sa elevare.

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Ma La levatrice è anche – e forse soprattutto – un romanzo sul confronto tra due mondi. Quando nella vita di Mallena arriva Angelica, tutto sembra vacillare. Angelica ha sacrificato tutto per studiare e riuscire a diventare un’ostetrica professionista. Ha pelle di porcellana, stivaletti lucidi, occhi chiari e determinazione. Vuole essere riconosciuta, rispettata, ma il piccolo paese non la accoglie. Preferisce Mallena, la sapienza antica delle erbe, del silenzio, dell’attesa. Tra le due donne nasce un corto circuito affettivo e professionale che è, in realtà, il cuore del romanzo. Cau non prende posizione, non contrappone, ma mostra. Angelica e Mallena rappresentano due saperi che dovrebbero essere alleati: la scienza e la tradizione, la tecnica e la saggezza. Due sguardi che si completano e che, solo insieme, possono davvero onorare il mistero della nascita.

Mallena, con la sua dedizione silenziosa e feroce, incarna il lavoro di cura: il lavoro invisibile di milioni di donne. La sua figura è dolcissima e austera, ruvida e piena d’amore. Ci si affeziona a lei senza accorgersene, come ci si affeziona alle cose vere, quelle che non chiedono nulla e danno tutto. Fa male vederla ignorata, malpagata, messa da parte, segnata dalle disgrazie. Eppure, proprio in questa ingiustizia, si rivela la sua grandezza. La levatrice è un romanzo che la onora senza retorica, con una scrittura sobria e intensa, che si chiude lasciando in chi legge una malinconia sottile, come il ricordo di una voce lontana che continua a chiamare.

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