Autrice francese tra le più celebrate, drammaturga di fama internazionale e scrittrice di romanzi come “Felici i felici” e “Serge”, nel suo nuovo libro, “La vita normale”, Yasmina Reza invita a entrare in una serie di vite, e ad ascoltare, attraverso una galleria di volti colpevoli e innocenti, sempre umanissimi. In un impasto di aule di tribunale e scene quotidiane, si compone una carrellata di disagio, fragilità e tenerezza. Frammenti che colpiscono come battute teatrali, personaggi restituiti nei dettagli minimi, per farli restare vivi, accanto a noi. Reza non ci chiede di giudicare, ma…
Cosa significa vivere una vita normale?
È un’espressione che pare anodina, quasi banale, eppure Yasmina Reza la carica di un peso enorme, come una sentenza. Nel suo nuovo libro, La vita normale (Adelphi, traduzione di Davide Tortorella), l’autrice francese – già nota per romanzi come Felici i felici, Serge e Babilonia, e per pièce teatrali di culto come Il dio del massacro e Arte, solo per citarne alcune – ci propone una costellazione di brevi storie, confessioni, appunti e affondi lirici che, nel loro insieme, costruiscono un affresco bruciante della condizione umana. Un affresco spezzato, certo, frammentario, ma fitto di senso e soprattutto di temperatura emotiva.
Siamo nel territorio del vero e del quasi vero (per quindici anni Reza ha seguito casi in giro per la Francia), della vita processata nei tribunali o nei pensieri, nei ricordi, nei riflessi. Non c’è una vera e propria trama, né un centro stabile.
La narrazione procede per flash, per scatti improvvisi. Eppure, pagina dopo pagina, questo mosaico prende forma. Ci ritroviamo immersi in una messa in scena cupa e folgorante, un teatro dell’umanità in cui ognuno – chi legge compreso – può ritrovarsi imputato.
Il tono è quello che conosciamo bene: lucido, quasi crudele per quanto è preciso, ma capace di lampi di tenerezza. Si legge con una voracità che però viene costantemente rallentata. Reza ci chiede – anzi, ci obbliga – a fermarci. A non divorare. A lasciare che queste storie si sedimentino, che trovino spazio dentro di noi. In un mondo in cui si ingurgitano senza sosta contenuti mordi-e-fuggi, il libro impone un ritmo diverso: quello dell’ascolto vero.
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I personaggi che attraversano La vita normale non sono eroi né mostri. Sono esseri umani colti nel momento peggiore della loro esistenza. E proprio per questo, sono spaventosamente vicini.
C’è Oliver, ad esempio, con il suo maglione mélange e il viso gonfio e squadrato: è accusato di aver tentato di uccidere un’anziana con l’atropina. Tutti gli indizi lo inchiodano, ma lui nega. Nega con una fermezza che non è solo difensiva: sembra negare la realtà stessa, come se non potesse riconoscersi nel proprio gesto.
C’è Jean Marc, ex re della televisione francese più chiassosa, oggi ridotto a parodia di sé stesso. Irretisce giovani sui social con l’aria di chi non ha ancora accettato di essere finito.
C’è il signor Louette, che ha visto una scena di violenza – un autista che trascina via un clochard dalla linea 44 – e che sembra vivere una vita che non gli appartiene più. Poi c’è Cyril, la cui furia esplode in un tempo assurdo e gelido: sette minuti. In quei sette minuti accoltella la suocera trenta volte, poi si rivolta sul cognato.
Dalila, invece, attacca con cieca collera un uomo nero, mite e silenzioso. Un gesto violento e disperato che rivela un passato di dolore, botte, istituti. Non è un caso isolato, è un’esplosione da una ferita mai curata.
Tarik, ancora, è il predatore perfetto. Accusato di stupro, è l’uomo che sa come presentarsi, come sedurre, come confondere. Un modello di manipolazione.
E poi i grandi nomi, in giacca e cravatta: Azibert, Herzog, Sarkozy – descritti come “un pavone, un venditore di fumo e un ansioso cronico”. Sono eleganti, composti, accusati di corruzione e finanziamenti illeciti. Anche per loro, come per gli altri, Reza non concede sconti né moralismi.

Yasmina Reza, nella foto di Carole Bellaïche
In questo mondo di processi e confessioni, però, si insinua qualcosa di sorprendente: la vita normale, appunto. C’è una cena con un’amica che se ne va cantando per le scale, il ricordo dell’attesa di un taxi in compagnia di Calasso, una passeggiata con un vecchio agente lungo il fiume a Berlino, dove il tempo si mostra nella sua crudeltà e bellezza.
E c’è Venezia, sublime, brumosa, fragile. Non una cartolina turistica, ma un luogo dove il passato e il presente si intrecciano, e dove i fantasmi – letteralmente – sembrano abitare le calli insieme ai vivi. È una Venezia mentale e sensoriale, in cui tutto è sospeso e decadente, come se il giudizio – e il perdono – potessero venire solo da un paesaggio che ci guarda muto e immortale.
Proprio questi spettri sono i compagni segreti della narratrice: “Tra i morti ho un bel po’ di amici”, scrive. Alcuni li ha conosciuti, altri no. Ma tutti, dice, hanno reso più bella la sua vita. È in questi passaggi che il libro si fa profondamente vibrante. Il dolore e la colpa convivono con la grazia, con la possibilità di bellezza. Anche tra le rovine.
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Per reagire, per nascondersi, ci mascheriamo: Reza fotografa e annota con attenzione chirurgica i vestiti con cui si presentano gli imputati dei processi a cui assiste. Maglioni, giacche, scarpe. Nulla è lasciato al caso. Gli abiti diventano specchi dell’identità, protezioni e schermi. Servono per distinguere i vivi dai personaggi di finzione, dai fantasmi. I veri colpevoli, suggerisce Reza, sono quelli che sentiamo concreti fino all’inquietudine. Chi scrive narrativa, invece, spesso li veste di parole troppo perfette. Qui no. Qui la stoffa è ruvida, e ci graffia.
Reza ha sempre avuto un orecchio perfetto per i dialoghi – è drammaturga, prima di tutto – e anche in questo libro le voci si accavallano, si contraddicono, si sovrappongono. È un’aula di tribunale, sì, ma è anche un teatro. L’unità di spazio (la stanza, la sala, la cucina) prende il posto dell’unità di tempo, e trasforma ogni racconto in una possibile messa in scena. La vita viene trattata come un processo continuo, in cui ognuno dice la propria verità, ma nessuno ha mai davvero l’ultima parola.
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Alla fine, l’autrice sembra volerci dire che tutti – in modi diversi – siamo chiamati a difenderci. Per piccoli crimini, a volte. Come la bambina che sulla spiaggia del Lido modifica la porta da calcio per non farsi segnare dal padre. Un gesto minimo, eppure significativo. Tutti vogliamo avere una possibilità. Tutti cerchiamo una giustificazione, una sentenza mite, una via d’uscita.
La vita normale è un libro che ci dice, senza orpelli: potresti essere tu. Non c’è pietismo, non c’è assoluzione – e nemmeno la smania compiaciuta a cui ci ha abituato la narrazione del true crime. C’è solo uno sguardo umano, nitidissimo e al tempo stesso partecipe, che ci invita a osservare, ad ascoltare, e soprattutto a non giudicare troppo in fretta. E che ci costringe a domandarci, con sincero turbamento: e io? Da quale accusa mi dovrei difendere, oggi, nella mia vita normale?
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Fotografia header: Yasmina Reza, credit foto Carole Bellaïche