Niente sesso, siamo (film) inglesi. Le due trasposizioni cinematografiche da Ian McEwan in questi giorni sugli schermi, non solo tratte dai suoi libri (“Il verdetto” da “La ballata di Adam Henry” e “Chesil Beach” dal racconto lungo omonimo) ma sceneggiate in prima persona dallo scrittore britannico, sono basate su un medesimo potente ingrediente narrativo, o meglio sulla sua assenza… – L’approfondimento

Niente sesso, siamo (film) inglesi. Le due trasposizioni cinematografiche da Ian McEwan in questi giorni sugli schermi, entrambe del 2017, non solo tratte dai suoi libri (Il verdetto da La ballata di Adam Henry del 2014, ora in sala, e Chesil Beach dal racconto lungo omonimo del 2007, al cinema dal 15 novembre) ma sceneggiate in prima persona dallo scrittore britannico, sono basate su un medesimo potente ingrediente narrativo o, meglio, sulla sua assenza. Che cosa succede, sembra chiedersi l’autore, a una vecchia coppia consumata oppure a una giovane coppia inaugurale, se lei non vuol fare, più o per sempre, l’amore, per routine coniugale e alibi lavorativi nel primo caso, per profonda repulsione e traumatica avversione nel secondo?

Da questa sottrazione, da questo rifiuto (femminile) che fonda questi che potremmo chiamare primo amore e ultimi riti (per evocare il titolo della prima raccolta di racconti di McEwan, all’attivo 10 romanzi e numerose riduzioni filmiche), a fronte di un maschile giovane e impaziente da un lato e saggio e determinato dall’altro, traggono le mosse due storie per molti aspetti diverse, per epoche, intrecci ed esiti, che pur raccontano entrambe alcuni nodi inestricabili di cuore e cervello che, per dirla con Woody Allen, spesso non si danno neanche del tu.

Ecco come la negazione del corpo, e delle sue (e)mozioni, non sia mai indolore e segni profondamente le vicende, finzionali ed esistenziali, innescando frustrazioni profonde, scelte fatali, mancate procreazioni ma anche creativi struggimenti, soluzioni perversamente catartiche, di cui queste storie portano tutti i segni, e la forza dirompente. Che cosa accade, dunque, dove c’è amore senza sesso?, si potrebbe semplificare così, ma non troppo, la questione, in uno spazio immaginario melodrammatico, quello di McEwan, in cui la sessualità è sempre in qualche modo colpevole, e dunque negata o rimossa (dallo spettro dell’incesto nel Giardino di cemento alla violenza di Espiazione).

Nel Verdetto, la giudice Fiona Maye, assorbita dai dissidi morali al centro dei suoi processi (non a caso inaugurati dal dilemma salomonico e gordiano insieme di due gemelli nati attaccati: un cuore e due cervelli, condannati alla morte se lasciati uniti, separati solo al prezzo del sacrificio di uno per la vita dell’altro), trascura il marito, che è stanco di un matrimonio deprivato di ogni passione fisicamente espressa e deciso a smuovere la moglie workaholic da un’astinenza che trascura il talamo nuziale per dedicarsi integralmente ed esclusivamente allo scranno processuale. Ma la crisi della coppia, esplicitata dal bisogno espresso con chiarezza e pervicacia dal marito letterato, inietta nell’irreprensibile giudice i semi di un bilancio più profondo, che viene in qualche modo agito per procura, attraverso il caso di un quasi maggiorenne al quale i genitori testimoni di Geova vogliono negare una trasfusione che gli salverebbe la vita. Rompendo il distaccato protocollo giuridico (una sequenza di tazze di caffè versate come preludio), Fiona decide infatti di far visita in ospedale al giovane Adam (nome molto interessante, che descrive in qualche modo un rapporto fra i due in bilico fra quello para-divino del giudice assoluto che decreta la vita o la morte, l’accoglienza o la cacciata, e quello pur lampante di una genitorialità vicaria frammista a una suggestione incestuosa), e di entrare in relazione con questo caso, mettendo in gioco il fantasma di una maternità mancata, non a caso attraverso una questione legata al sangue, al suo inquietante e salvifico contaminarsi (in fondo è questo mischiarsi di sangue in una relazione di coppia fra marito e moglie, che – ricorda ironico l’adagio – non sono neanche parenti, a dare luogo a una nuova vita). La poesia e la musica, riserva di bellezza e passione delle parole di Yeats, sostituto pulsante di vita sotterrate dal linguaggio asettico dei dossier lavorativi e dal distacco professionale, riaffiorano così attraverso l’incontro con questo giovane sospeso tra la vita e la morte, tra la dipendenza dai genitori, la sudditanza sociale e la possibilità di una scelta matura e autodeterminata, specchio della condizione sospesa in cui la donna stessa è come incastrata.

Forse non è un caso che anche in Chesil Beach, come nel Verdetto, la scena decisiva e forse più emblematica si svolga in una sala da concerto, dove l’uomo della coppia, relegato letteralmente a spettatore (dunque teorico e narratore), assiste allo spettacolo della donna che suona il suo strumento (violino nel primo caso, piano e canto per la giudice), come se la passione femminile potesse solo esercitarsi in quella sublime e sublimata distanza, che scatena il pianto liberatorio che l’esecuzione (sentenza e performance) riesce a sprigionare, là sul palco.

In Chesil Beach, su questo bagnasciuga concreto e simbolico del Dorset, la giovane coppia è giunta invece vergine alla prima notte nuziale, che ha (non) luogo nel corso di un’imbarazzata villeggiatura al confine di un mare freddo e vuoto (correlativo neanche troppo nascosto di un materno mancante, potenzialmente infecondo). Questo imbarazzo, dettato certo dal contesto sociale (siamo negli anni Sessanta), ma anche dal carattere psicologico dei due (lui irruento goffo e permaloso, con una prepotente ansia di prestazione, figlio di una madre artista e cerebrolesa; lei inibita, forse traumatizzata da un contesto famigliare che nasconde molti non detti sotto un algido formalismo borghese), in questa prima fallimentare notte (ma potremmo dire in queste prime note) di nozze, traccia una sospensione, come una domanda (melodica e amorosa) che non può trovare risposta, segnando, in questo matrimonio non consumato, l’esistenza di lui come una condanna a consumarsi nell’attesa di una vita, sempre altrove.

Anche il marito del Verdetto non si stanca di aspettare e, di fronte alla reticenza della sua donna, a quella porta continuamente chiusa, decide di giocare la parte dell’innamorato, secondo Roland Barthes come per McEwan: colui che aspetta. Perché le storie d’amore sono impossibili (insoddisfatte, incomplete, non agite) o non sono, sembra suggerire l’autore, o perlomeno non sono oggetto di racconto e soggetto per un film.

Se la regia di entrambe le pellicole appare più al servizio delle storie e dei personaggi che segnata da un’originalità della messa in scena, questo tratto convenzionale permette però alle due vicende – attraverso prestazioni attoriali di straordinario livello, in particolare Emma Thompson, la Fiona nel film di Richard Eyre, ma anche Saoirse Ronan giovane sposina in Chesil Beach – di far emergere la visione potente e lancinante dello scrittore. E se il melodramma di Dominic Cooke s’inscrive più nei canoni di un genere riconoscibile mentre Il verdetto, sotto il velo del film processuale, rivela una struttura più imprevedibile e singolare, entrambi, complice forse la distribuzione e la visione ravvicinata, raccontano con molti echi e un’unità imprevista di una mancanza decisiva, dell’attesa di una vita e delle strade talvolta decisamente tortuose delle relazioni, facendo venir voglia di rituffarsi nell’universo narrativo triste, profondo e segnato da un seducente nucleo vuoto dello scrittore inglese.

L’AUTORE: alla pagina dell’autore tutte le recensioni e gli articoli di Matteo Columbo per ilLibraio.it

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