In un vivaio stilistico che gli è valso una candidatura al Booker Prize e la fama di maggior romanzo letterario inglese del 2019, “Lanny” di Max Porter rappresenta una voce di altissimo livello nel panorama della letteratura contemporanea, certo adulta nel contenuto ma comunque prossima agli incantevoli toni dell’infanzia, da sempre quelli adatti per raccontare storie più belle – L’approfondimento

All’inizio rassicurante come solo una fiaba sa essere, poi infine ipertensivo quasi fosse un romanzo dell’orrore, è nel solco narrativo del racconto folkloristico inglese che l’anticonvenzionale Lanny di Max Porter (in Italia per Sellerio, nell’abile traduzione di Marco Rossari) tanto interroga il lettore circa il delicato rapporto fra infanzia e maturità, nell’esplicita contrapposizione dei generi evidenziando sia la difficile sfida del raccontarsi bambini in un contesto per lo più adulto, sia quella particolare forma di pensiero che spesso accomuna fanciulli e abitanti del soprannaturale: l’immaginazione.

A tal proposito, “Viveva in un mondo di fate. Ma era anche sofisticato e intuitivo”, così favoleggia l’autore circa il carismatico primo attore Lanny, curioso mattatore del testo ed enfant prodige dalla creatività sconfinata ,“assimila tutto quello che ascolta, assorbe i suoni di questo mondo e tira fuori i coriandoli di un altro mondo ancora”. Già, perché da poco trasferitosi in una campagna dei giorni nostri che poco o nulla ha di straordinario – Hatchett Wood, qualche miglio di distanza da Londra e quattrocento retrogradi abitanti appena – il nostro “piccolo mostro geotermico” trascorre le giornate nell’apparente banalità del quotidiano, alla noia e al pregiudizio ovviando solo grazie alle stimolanti opportunità che gli vengono spesso offerte dal contesto naturale (d’altronde, “Se può scegliere, Lanny sceglie sempre il bosco”).

Lanny di Max Porter

Che si entusiasmi, per esempio, nel decorare un grazioso praticello come fanno certi uccelli “giardinieri”, o che si diverta, piuttosto, a disegnare cortecce di faggio sotto la guida dell’anziano Pete, il “Verdeggiante” Lanny sembra infondere nuova linfa a tutto ciò che lo circonda, risvegliandolo dal torpore come fa dal letargo la primavera. A conferma di ciò, è in una singolare vicenda di connessione-possessione – “Stanotte ho sognato di nuovo che (…) ero dentro un cervo che mi guardava, e si chiedeva se ero un animale” così il bimbo racconta all’esterrefatta madre – che l’innocente protagonista viene di sottecchi avvicinato da una irriverente entità silvana a nome Fanghiglio Frondoso, Green Man dall’aspetto vegetale già presente in numerosi episodi della produzione letteraria britannica (tra cui anche Robin Hood di Alexandre Dumas e Peter Pan di James Matthew Barrie).

La transizione dei fatti sarà ben visibile: mentre di Lanny si perdono d’improvviso le tracce e il paese tutto mormora nella ricerca di un colpevole – “Ehi, pedofilo, bella faccia tosta”; “Lanny il solitario: era sempre a zonzo” “Se l’è preso Fanghiglio” – il testo stesso, ora più cronaca che fantasia, perde la propria struttura lineare per avvicinarsi, piuttosto, a quella figurata di un carme poetico, ossia quel tipo di composizione ideata per essere guardata, oltreché per essere letta.

È d’altro canto questa la trovata più ingegnosa dell’intero romanzo; alternando sezioni in prosa (quelle ordinarie dedicate alle voci dei genitori e dell’amico Pete; di Lanny sono sempre gli altri a parlare) a paragrafi di simil-poesia (quelli “fuori dalle righe” intonati da Fanghiglio e dal coro sospettoso degli abitanti del borgo) l’autore rivolge il racconto a una spazio di scrittura in continuo mutamento, in grado di adattarsi alle circostanze come appunto farebbe un bambino, o pur anche la malerba, sul terreno dell’esperienza.

E nell’incertezza di un triplice finale alternativo, che poi molto ha a che vedere con l’idea di disperato smarrimento del romanzo – “Lanny, mi ricordi me”, dice Fanghiglio al giovane maghetto, forse a indicarci quella solitudine che Natura prova di fronte all’avanzare della società moderna – un messaggio educativo in merito al sottobosco della trama: che per meglio preservare l’innocenza, mai si arrivi a dimenticare il linguaggio dei bambini.

Sul punto, in una significativa videointervista rilasciata al Wheeler Center in occasione dell’uscita del libro, l’autore ha così precisato: “Molti scrittori tengono la porta chiusa mentre stanno lavorando; io la lascio costantemente aperta, aspettando il momento in cui i miei figli entrano nello studio (…) perché la loro vicinanza è per me pura ispirazione e nutrimento”.

In un vivaio stilistico che già gli è valso una candidatura al Booker Prize e la fama di maggior romanzo letterario inglese del 2019, questa opera seconda di Max Porter – dopo il pluripremiato Il dolore è una cosa con le piume, traduzione di Silvia Peraccini, Guanda – segna un ulteriore capitolo nella carriera in costante ascesa dell’autore, di recente alle stampe estere anche con il suo nuovo (per ora inedito in Italia) The Death of Francis Bacon, visionario e collettivo affresco sugli ultimi giorni di vita del pittore irlandese nella città di Madrid.

Nella medesima intervista di cui sopra, e per concludere, l’autore ha anche ricordato come dal testo originario sia stata tratta una riduzione di carattere teatrale a firma di Edna Walsh, durante la cui messinscena il mormorio del villaggio è stato trasmesso attraverso incroci di altoparlanti sovrapposti, così da ingenerare, nello spettatore, quella stessa sensazione di miscuglio uditivo che proprio caratterizza la poetica del romanzo. Giusto per sottolineare, ancora una volta, quanto le parole di Max Porter rappresentino una voce di altissimo livello nel panorama della letteratura contemporanea, certo adulta nel contenuto ma comunque prossima agli incantevoli toni dell’infanzia, da sempre quelli adatti per raccontare storie, le più belle.

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