Dopo il successo di “Tre piani” (da cui Nanni Moretti ha tratto l’omonimo film presentato al Festival di Cannes), torna il libreria lo scrittore israeliano Eshkol Nevo con “Le vie dell’Eden”, un libro seducente e raffinato, in cui troviamo tre personaggi in procinto di confessarsi, in uno sfogo accorato che assomiglia a un laico atto di dolore, una catartica ammissione di peccati. Tre novelle apparentemente autonome e indipendenti, legate però da un impercettibile filo rosso – un filo che basta tirare solo un po’, per ritrovarsi in mezzo alla bufera 

Discolparsi, giustificarsi, spiegare. Ma anche cercare di capire, di vederci chiaro. È questo quello che fanno i personaggi del nuovo libro di Eshkol Nevo, Le vie dell’Eden, pubblicato da Neri Pozza con una traduzione dall’ebraico di Raffaella Scardi. Ma da cosa devono proteggersi queste voci, da chi vogliono essere perdonate? E, soprattutto, perché sono tutte sotto accusa?

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Le domande sorgono spontanee perché in quest’opera, come era già successo per il bestseller Tre piani (sempre Neri Pozza e sempre Raffaella Scardi, da cui Nanni Moretti ha tratto l’omonimo film presentato al Festival di Cannes), ci troviamo di fronte a tre confessioni fluviali e drammatiche, piene di rimpianti e di rimorsi, di ammissioni, di colpe e di questioni lasciate in sospeso, sfumate in un dubbio, una frase che non sa terminare e che allora si interrompe solo con——.

Contesto assai familiare per i lettori dello scrittore israeliano – cinquantun anni, nato a Gerusalemme, nipote dell’ex primo ministro Levi Eshkol, ricordato come uno dei padri fondatori dello Stato di Israele – che si muovono tra le tre novelle alla frenetica ricerca del filo rosso, l’elemento nascosto che le tenga legate l’una all’altra. E sì, quell’elemento c’è: seminato perfettamente e con grazia tra quelle che potrebbero sembrare tre storie separate, forse accomunate da qualche tema – la fedeltà, l’incomunicabilità, il desiderio – ma sostanzialmente autonome e indipendenti.

Ormai sanno come si fa, i lettori. Sanno che avere a che fare con i racconti di Eshkol Nevo è come avere a che fare con una bomba a orologeria. E tu che sei lì a leggere – e che un po’ lo conosci – sai bene che quella bomba esploderà: sai anche quando – alla fine – e sai anche come – dolcemente e silenziosamente, senza boati sensazionalistici – eppure continui a chiederti, con affanno, cosa accadrà.

È un meccanismo che il narratore mette a punto e riproduce racconto dopo racconto, come una coreografia ben collaudata – indizi, sospetti, rivelazioni – ma che ogni volta lascia disarmati e sorpresi, e ogni volta induce a quella lettura che è comunemente chiamata “page turner“, perché davvero non permette di staccare gli occhi dalla pagina fino a quando non si arriva al punto finale.

Il tutto con una voce che giustamente Alessandro Piperno, nella sua recensione per La Lettura, ha definito “casual“, perché scorrevole e disinvolta, pulita e sporca allo stesso tempo, colloquiale ed estremamente raffinata. La prosa di uno che è bravo, e non ha bisogno di dimostrarlo.

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Ma andiamo con ordine. Tre storie, dicevamo. Tre storie in cui troviamo tre personaggi appartenenti a quello che Nevo, proprio in Tre piani, chiamava il Borghesistan: sono persone comuni, Omri, Ahser e Heli, hanno una vita che oscilla tra nevrosi e manie, divorzi, figli, viaggi, passeggiate, tradimenti e lavoro. Sono figure – due uomini e una donna – che amano la musica, scrollano i social, si annoiano, rimpiangono il passato e cercano, un po’ come tutti, l’Eden.

Ora, cosa sia questo Eden non è dato saperlo nello specifico, e forse non è nemmeno così importante. Anche perché più che un luogo fisico vero e proprio, appare come una sorta di sottofondo musicale – la sonata 13 di Chopin o il brano Let love in dei Knesiyat Hasechel -, un “contesto”, qualcosa di misterioso e invisibile che ci chiama a sé, che parla alla nostra parte più profonda.

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L’unica cosa che appare certa, invece, è che per raggiungerlo c’è bisogno di una redenzione. È per questo che troviamo i tre personaggi in procinto di confessarsi, in uno sfogo accorato che assomiglia a un laico atto di dolore, una catartica ammissione di peccati.

È come se l’autore ci dicesse che la vita è appesa a un filo – sempre quel filo rosso che lega tutto, fatto di attimi, di casualità, di incidenti imprevisti, di incontri decisivi – e che basta tirarlo solo un po’ per ritrovarsi in mezzo alla bufera. Bufere che sconvolgono le esistenze, che nascono da piccoli eventi e che poi distruggono ogni cosa.

Così un uomo può imbattersi in una donna dai capelli ricci e finire coinvolto in un omicidio senza saperlo. Un altro può sfiorare, per sbaglio, il seno di una sua specializzanda, e rischiare di perdere tutto. Un altro ancora può entrare in un frutteto e poi non uscirne mai più (il titolo dell’opera doveva essere proprio Un uomo entra in un frutteto, con riferimento al celebre Trattato del Talmud in cui si racconta di quattro saggi Maestri dell’ebraismo che entrano nel giardino di Dio, il Paradès, da cui solo uno uscirà incolume).

“Il mondo si divide in due gruppi di persone”, scrive Nevo nel primo racconto, “chi ha i figli. E chi non li ha”. Riprendendo la sua spartizione, potremmo dire che il mondo si divide in due: chi ha letto Nevo, e chi non l’ha ancora fatto. Per gli appartenenti alla prima categoria, Le vie dell’Eden sarà l’ennesima conferma della grandezza di questo autore: niente di sorprendente, ma comunque sempre brillante e seducente. Ai secondi, invece, la gioia di scoprirlo per la prima volta, e di innamorarsene perdutamente.

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