Dopo il successo di “The Good Lord Bird – La storia di John Brown” e “Il diacono King Kong”, James McBride torna con “L’emporio del cielo e della terra”. In questo romanzo l’autore (già vincitore del National Book Award per la narrativa) supera – ancora una volta – le barriere della razzismo e scrive una storia di bontà e amore…
James McBride è nato nel 1957, a Brooklyn, sua madre era un’immigrata ebrea dalla Polonia e suo padre un reverendo afroamericano. Nel suo nuovo romanzo, L’emporio del cielo e della terra (Fazi, con la traduzione di Silvia Castoldi), l’autore parte proprio da questo, dalle radici: due comunità, quella ebrea e quella nera, che cercano di sopravvivere nel quartiere di Chicken Hill, nella piccola città di Pottstown (in Pennsylvania).
Ebrei e neri sono, negli anni ’20 e ‘30, i due nuovi volti dell’America, una nazione fondata letteralmente sull’immigrazione, e ci permettono, quasi come fossero una cartina al tornasole, di osservare l’integrazione e il razzismo di quegli anni. Temi che McBride ha già affrontato: in The good lord bird, romanzo diventato anche una serie tv, e in Il diacono King Kong (entrambi pubblicati per Fazi e tradotti da Silvia Castoldi).
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Ma questo non è solo un romanzo costruito intorno a due minoranze, L’emporio del cielo e della terra (di cui è stato annunciato un’adattamento cinematografico e il coinvolgimento di Steven Spielberg) è un racconto di gentilezza e comunità, di bontà e speranza. Una narrazione epica e moderna, fatta di personaggi stravaganti e sensibili che lottano per una causa.
Ambientata tra le strade di Chicken Hill, la storia si concentra su due figure in particolare: Moshe è un ebreo rumeno e il superstizioso proprietario di due teatri aperti anche ai neri. Chona, sua moglie, è ebrea ma nata negli Stati Uniti, nonostante le difficoltà affrontate durante l’infanzia sorride sempre alla vita. Moshe ha successo nelle sue attività e vorrebbe abbracciare definitivamente il sogno americano, mentre Chona è proprietaria del negozio che dà il titolo al romanzo, sempre in perdita ma punto d’incontro per tutta la comunità.
E intorno ai due coniugi compaiono figure come quella di Nate, il tuttofare nero, di poche parole ma significative; oppure Doc Roberts, medico bianco della città che guida l’annuale parata del Ku Klux Klan. Questi, e i loro concittadini, formano un eterogeneo mondo, mai protagonista eppure sempre presente lungo la storia.
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Dopo una decina d’anni di matrimonio, Chona si ammala di una malattia misteriosa e incurabile. McBride racconta la sofferenza attraverso gli occhi di Moshe e dipinge un tenero ritratto dei due coniugi mentre affrontano, ciascuno a suo modo, questo difficile momento. E proprio quando tutto sembra volgere per il peggio, Chona si riprende e aiuta il prossimo: Nate e la moglie Addie chiedono alla coppia di proteggere il nipote Dodo (sordo e rimasto orfano) affinché lo Stato non lo porti via.
Ma il risentimento personale e il razzismo di Doc Roberts riescono a superare anche le difese di Chona, e Dodo viene rinchiuso nell’istituto psichiatrico di Pennhurst. Ancora una volta la comunità diventa la figura chiave dei romanzi di James McBride, unendosi per liberare il bambino.
Una missione e, soprattutto, una celebrazione dell’amore che può nascere nelle piccole comunità e che si dimostra in grado di superare ogni barriera: quella della differenza etnica, della lingua (sono diverse le frasi in yiddish) e del corpo – oltre a quelle dell’istituto, ovviamente.
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Senza perdere di vista la trama, McBride tratta il tema della malattia e delle limitazioni fisiche: Chona che è storpia a causa della poliomielite, e che non prova “neanche un grammo di amarezza o un briciolo di vergogna”, descritta come una donna forte, sempre pronta a lottare contro le ingiustizie e a sfidare i pregiudizi della gente. E Dodo, che sin dalla prima apparizione mostra tutta la sua vivacità e forza d’animo, la capacità di saper vivere il mondo anche se sordo in anni sicuramente complessi – non sono mai strade facili quelle disegnate dallo scrittore e musicista statunitense.
Dietro queste due storie si nasconde un’esperienza fatta dallo stesso McBride mentre era studente al college. Nei ringraziamenti ricorda infatti Sy Friend, direttore del Variety Club Camp for Handicapped Children di Worcester, per il quale McBride ha lavorato durante l’estate e scrive: “le lezioni di Sy sull’inclusività, l’amore e l’accettazione – impartite non con cortese sufficienza, ma grazie ad azioni concrete (…) – mi hanno accompagnato per il resto della vita”.
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L’emporio del cielo è della terra è molto altro, però. Si apre come un mistero: uno scheletro ritrovato in un pozzo nel 1972; e prosegue con il tentativo di salvataggio di Dodo quasi quarant’anni prima. È una storia fatta di flashback e digressioni, di commenti – ironici e a volte acidi – del narratore, ma anche di quel caos che rappresenta al meglio la vita vera. James McBride con una scrittura dinamica non pontifica, non cede ai sentimentalismi, critica e racconta le verità e i paradossi dell’America.
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