Molto si è detto di don Milani negli ultimi mesi, e le polemiche non sono mancate. Giusi Marchetta, insegnante e scrittrice, riparte dal suo pensiero e rilegge “Lettera ad una professoressa”, che 50 anni dopo resta attualissimo, e che può essere d’aiuto per la scuola di oggi: “Troverete spunti e idee sulla formazione e l’apprendimento di un’intelligenza profonda, dei veri e propri lampi che possono guidare anche nei momenti più bui, quando noi docenti ci dimentichiamo di chiederci se il nostro lavoro abbia senso o no e andiamo avanti per inerzia…”

Lettera a una professoressa (2017)

Don Milani mi ha scritto tre volte.

La prima volta quando ero la studentessa di un liceo opprimente e classista. Ogni pagina mi sembrò Vangelo.

La seconda volta frequentavo i corsi della scuola di specializzazione all’insegnamento. Lettera a una professoressa non era incluso nella bibliografia dell’esame di Storia della scuola ma era citato spesso. Costringeva intellettuali e politici a confrontarsi con un Paese spaccato da un divario sociale profondo che, nonostante le professate buone intenzioni, non si faceva niente per colmare.

Da insegnante, ho riletto Don Milani forte delle mie convinzioni sull’uguaglianza e la necessità che la scuola si faccia strumento di promozione culturale e sociale, riducendo quel baratro tra gli studenti che cognome ed entrate dei genitori hanno tracciato fin dalla nascita. Non pensavo certo di essere io la professoressa a cui scrive.

Molto si è detto e discusso di don Milani negli ultimi mesi, segno che la ferita che ha descritto è aperta, l’accusa coglie ancora nel segno e ancora ci spinge a chiederci se qualcosa si è fatto negli ultimi cinquant’anni per sanarla. Per questo motivo ho deciso di fare un esperimento: rileggere Lettera a una professoressa, un classico della pedagogia riferito alla scuola e alla società italiana del 1967, estrapolando alcune osservazioni che potrebbero valere anche oggi. Volevo vedere se davvero possiamo dirci incolpevoli, se la nostra scuola a cinquant’anni di distanza è riuscita a sottrarsi al fuoco delle sue istanze.

-Tutta la vostra cultura è costruita così. Come se il mondo foste voi. (…) Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a innovarle all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo.
Questo lo scrive all’inizio del saggio e temo sia ancora vero. Penso ai ragazzi che entrano in classe parlando in dialetto o in un’altra lingua e devono imparare un italiano che non sentono altrove. Che la cultura li aiuti davvero ad esprimersi e che non contribuisca ad affossarli, dovrebbe essere un loro diritto ancora oggi. Riferendosi a chi la impara tra i banchi di scuola, infatti, don Milani aggiunge anche: La vostra lingua potrebbe fargli comodo. Auspica una lingua al servizio delle persone, non il contrario: mi domando se ogni mia lezione di grammatica tenga conto di questo.

-Abbiamo visto che con alcuni di loro la lezione diventa difficile. Qualche volta viene la tentazione di levarseli di torno. Ma se si perde loro la scuola non è più scuola.
Oggi li chiamiamo drop out, i ragazzi pluribocciati, demotivati, difficili, che scompaiono dalle classi prima di prendere un diploma, o meglio, prima che la scuola abbia contribuito anche un minimo a farli sentire parte della collettività o capaci di trovarvi posto un giorno. Li perdiamo e finiscono a stanziarsi sul divano dei genitori o nei circuiti della criminalità che si nutre del disagio e della loro voglia di sentirsi appagati in qualcosa. Nonostante i progetti nati in accordo con associazioni e agenzie formative, in Italia abbiamo la percentuale più alta di NEET (non impiegati e non in formazione) di tutta Europa. La scuola è ancora quell’ospedale che con i sani funziona benissimo, con i malati un po’ meno.

-Studiano per la pagella, per il diploma. E intanto si distraggono dalle cose belle che studiano.
Mi piacerebbe pensare che oggi sia meno vero (e lo è di sicuro rispetto al passato), ma poi mi ritrovo a correggere sempre più compiti in cui non c’è scritta una sola parola; solo crocette, vero e falso, risposte già date e la speranza di imbroccare quella giusta.

-Non c’è nulla sul giornale che serva ai vostri esami. È la riprova che c’è poco nella vostra scuola che serva nella vita.
Gli studenti di oggi si chiedono continuamente a cosa serva quello che insegniamo. Non sempre saprebbero dirlo. Eppure non solo il giornale entra a scuola ma il mondo stesso, perché i nostri alunni parlano la loro lingua d’origine e poi un’altra, vivono in Italia, vengono da paesi diversi, seguono Canale5 e Al Jazeera. La scuola di oggi, mi auguro, non scappa dal mondo e neanche insegna ad accettarlo com’è. Al contrario: è il posto in cui si dovrebbe imparare a conoscerlo e a interpretarlo. Certo, mi viene il sospetto che il compito sia oggi più difficile che in passato, ma se non altro possiamo rispondere che ci stiamo lavorando.

-La scuola media esiste: è unica, obbligatoria. È un fatto positivo. Fa tristezza solo saperla tra le vostre mani. La rifarete classista come l’altra?
Vorrei rispondergli di no. Mentirei. La scuola è classista esattamente come la società: continua a pretendere le stesse cose da persone che hanno possibilità diverse. (Non c’è nulla che sia più ingiusto che fare parti uguali tra disuguali). Non inganni nessuno il basso numero di bocciature: si può ignorare un disagio anche consegnando un diploma che è a tutti gli effetti un ben servito e che non aprirà al Gianni di turno nessuna porta se non quella dell’uscita dal percorso scolastico.  

Basterebbero queste poche osservazioni per dimostrare che se qualche passo in avanti è stato fatto, c’è ancora da lavorare per ottenere una scuola che ci permetta di rispondere dignitosamente a don Milani. Mi piacerebbe però consigliare la lettura del suo saggio anche per un altro motivo: in mezzo al fiume di accuse che resistono al tempo, troverete spunti e idee sulla formazione e l’apprendimento di un’intelligenza profonda, dei veri e propri lampi che possono guidare anche nei momenti più bui, quando noi docenti ci dimentichiamo di chiederci se il nostro lavoro abbia senso o no e andiamo avanti per inerzia. A noi don Milani dice o ricorda che il non sapere è una disgrazia; che la frusta lascia il segno ma la nostra penna di più. Che l’arte è il contrario della pigrizia. Che dalla scuola i ragazzi non si aspettano che noia. Che bisogna ispirarli a diventare sovrani. Altro che medico o ingegnere. Che il maestro dà al ragazzo tutto quello che crede, ama, spera. Il ragazzo crescendo ci aggiunge qualche cosa e così l’umanità va avanti.

Alla fine della sua Lettera, don Milani immagina una risposta che amerebbe ricevere e la butta giù chiedendo solo che gli venga rispedita. Dopo sette anni passati in classe, non credo di riuscire ad accontentarlo. Potrei scrivergliene una diversa ogni anno, però, mettendoci dentro piccoli successi e cocenti sconfitte, ammettendo di essere stata in qualche caso la professoressa cattiva o stupida a cui lui scriveva cinquant’anni fa per riempirla di dubbi. Certo, meglio ancora sarebbe che il sistema scolastico stesso si incaricasse di rispondergli con una ridiscussione seria dei programmi, un maggiore investimento economico, un’idea chiara e seria del reclutamento e della formazione dei docenti, perché una professoressa indegna annega in servizio pubblico che funziona bene ma quando è un intero sistema ad essere stupido o cattivo non c’è molto da sperare per i Gianni di oggi e di domani.

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