“Accade che anche luoghi geografici senza una particolare rilevanza storica smettano di essere solamente ambientazioni per farsi avanti con il loro carattere e, soprattutto, con un portato simbolico non indifferente” – Germana Urbani, all’esordio con “Chi se non noi”, scrive su ilLibraio.it una riflessione sul rapporto tra scrittura e territorio, centrale nel suo romanzo, prendendo le mosse dall’esempio di autori come Paolo Rumiz, W.S. Sebald, Gianni Celati, Giulia Caminito, Marco Belpoliti e altri…
Io sono stata lì. Questa è la dichiarazione più onesta che io, o un qualsiasi altro scrittore, possa fare nel cercare di spiegare come un determinato luogo geografico e il suo paesaggio siano entrati da protagonisti nella propria opera, nel proprio romanzo, spesso determinandone il carattere, il passo.
Far entrare la geografia nelle trame della letteratura, chiamare per nome un luogo, senza rinunciare ai toponimi che lo caratterizzano, significa evocare l’origine più antica, la storia e dunque l’impronta umana che l’ha modellato e, a volte, deturpato.
Occorre fare esperienza di un luogo per scriverne, come spiega Paolo Rumiz in A piedi (Feltrinelli). “La scrittura è figlia del cammino” afferma “anche i pensieri, anche i ricordi, nascono dal ritmo regolare dell’andare”. Fare esperienza di un luogo, dunque, porta lo scrittore a incontrare altro, qualcosa che va ben oltre il suo percorso, qualcosa che era già nel suo immaginario.
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E questa è la grande lezione di W.S. Sebald, che per anni percorre a piedi “una contea perlopiù gravata da una cappa di nuvole grigie” e ne scrive, con uno stile solo apparentemente realista, registrando ciò che vede non come una replica ma come una risonanza: “A tratti, durante quella giornata – nel mio ricordo ora pesante come il piombo ora d’una leggerezza quasi impalpabile – si apriva un piccolo squarcio attraverso la coltre di nuvole” (Gli anelli di Saturno, Adelphi).
In Italia è Gianni Celati, autore oltre canone, che a partire dai racconti degli anni ’80 (Narratori delle Pianure, Verso la foce, Feltrinelli) interagisce con il paesaggio avvicinando l’arte dello scrivere a quella della fotografia: soprattutto quella praticata dall’amico Luigi Ghirri per il quale “i luoghi sono depositi di immagini affettive che noi riutilizziamo come un alfabeto della nostra fantasia”.
Si tratta di una vera e propria poetica dello smarrimento, l’unica condizione che ci porta a essere più vicini alla nostra umanità: morituri.
Lo spiega bene, Celati, nel saggio Andar verso la foce del 2008, ricordando “il tramonto a Scardovari, con la gente seduta sulle porte delle case, a chiacchierare in attesa della sera. Se andando in giro mi sentivo tutto il giorno nel vuoto, isolato dagli altri uomini, davanti a quelle forme di ritualità quotidiana scattava invece la fantasia d’un contatto con gli altri – un contatto anche senza avvicinamento, per l’idea di essere assieme agli altri anche nell’isolamento totale. […] E il legame massimo sta poi nel fatto che tutti quelli che vedo in giro, tutti gli altri con cui parlo, vanno come me verso la morte”.
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Andare verso la foce è anche il punto di partenza dell’ultimo lavoro di Marco Belpoliti che in Pianura (Einaudi), trasforma quel territorio percorso fisicamente in mappa interiore, appunto di taccuino, diario intimo. “Viviamo di briciole”, scrive “ritagli, minutaglie, scarti, sopravanzi. A ben pensarci la nostra vita è fatta solo di resti” e per incontrarli occorre vivere la ribellione e l’ingenuità con cui Pinocchio si perde. E “ogni volta che ci si perde è perché lo si vuole, oscuramente e nel profondo”. E lì sta la scrittura, in quel fondo dell’opaco a cui Italo Calvino dedica – esattamente cinquant’anni fa – un saggio ancora oggi attualissimo (Dall’opaco), per chi voglia confrontarsi col tema del rapporto tra letteratura e spazio geografico.
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Il territorio, porzioni di provincia quasi sconosciuta, entra di frequente anche nei romanzi degli scrittori di ultima generazione. “Io parto sempre da un luogo” affermava a un incontro Sandro Campani raccontando come nascono i suoi libri (I passi nel bosco, Il giro del miele, Einaudi) e non mancava di sottolineare come, a suo parere, il paesaggio vada considerato con la stessa dignità di un personaggio. Accade così che anche luoghi geografici senza una particolare rilevanza storica smettano di essere solamente ambientazioni per farsi avanti con il loro carattere e, soprattutto con un portato simbolico non indifferente.
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Si coglie certamente nell’ultimo romanzo di Giulia Caminito (L’acqua del lago non è mai dolce, Bompiani) ambientato ad Anguillara Sabazia sul lago di Bracciano. Quest’acqua ferma, malsana, che copre e attutisce i rumori, genera un’inquietudine scura che percorre le pagine preannunciando il tragico naufragare di quei “sentimenti definitivi” che solo gli adolescenti conoscono.
Anche per me il Delta del Po è un personaggio che vive nel tempo con gli uomini e gli animali che lo percorrono. Apre un dialogo con Maria, la protagonista del mio romanzo, ed è per lei foriero di epifanie cui segue la deriva del corpo e dello spirito. Ma quel particolare luogo in Chi se non noi è anche ritmo, simbolo, sogno.
“I luoghi, come gli dei, sono i nostri sogni” affermava il grande poeta Andrea Zanzotto che amava “muoversi, formicolare […] glissare in tutte le direzioni” per vivere lo “spaesamento […], lo sfracellarsi in scintille dello stesso io che coglie il proprio e l’altrui vivere” (Prose scelte, in Meridiano Mondadori).
L’AUTRICE E IL LIBRO – Germana Urbani è nata e cresciuta a Urbana, in provincia di Padova. Ha lavorato come giornalista professionista per testate venete ed è insegnante. Ha pubblicato racconti su diverse riviste. Chi se non noi (nottetempo) è il suo primo romanzo, e racconta la storia di Maria, a cui, anziché un orologio come ai suo fratelli, per la prima comunione il nonno regala una Polaroid.
Lei è affascinata dallo spazio intorno e sogna di diventare architetto da grande, di andare a vivere in città e indossare “scarpe violette magari tutti i giorni per andare in giro, a godersi la bellezza, profumando di buono”. E anche se suo padre le ha detto che “i sogni non si realizzano mai”, Maria ce la fa: si laurea, va ad abitare a Ferrara, lavora a Bologna nello studio di un importante architetto, frequenta i convegni di bioarchitettura e le mostre dei fotografi che tanto ama, insomma ha la vita che ha sempre desiderato.
Eppure, ogni venerdì torna nel Delta del Po, quel mondo paludoso che avrebbe preferito dimenticare se Luca, l’uomo che ama con un’intensità febbrile, non fosse stato cosí legato a quella terra. Lui è criptico, ambiguo, manipolatore, alterna sprezzo a dolcezza. E quando la lascia, è come se un’onda di piena si rovesciasse sotto quegli “immensi cieli color cicoria”.
Così Germana Urbani, nel suo romanzo d’esordio, si immerge con spietatezza nelle pieghe più intime della mente di una donna e nelle contraddizioni che spezzano i rapporti umani, scova il nodo che può legare l’amore più ingenuo e il dolore più accecante, sfuma i confini opachi tra passione e follia. Fotografia dai colori annebbiati di un Polesine ancora segnato nel territorio e nelle storie familiari dal ricordo della grande alluvione del ’51, Chi se non noi rapisce, disorienta e costringe a fare i conti con le proprie pulsioni più oscure.