Virginia Woolf e l’amico fraterno Lytton Strachey si scrissero lettere per 25 anni, ora tradotte integralmente in italiano per la prima volta, in un volume dal titolo “Ti basta l’Atlantico?” – L’approfondimento

In un secolo virtuale e incorporeo come il nostro, poche cose risulterebbero più materiche di uno scambio epistolare, con tanto di busta e francobollo. Non a caso scrivere lettere da molti è considerato fuori moda. E, tuttavia, da quando le attività più alte della vita umana devono rincorrere i trend del momento, la velocità o l’utile capitalistico, per risultare utili ad altri e più altri scopi?

Potremmo definire “inutile” anche ascoltare una suite per violoncello solo di Bach, recitare un verso di Shakespeare o sedersi “per un’ora (ma forse erano 10 minuti) su una roccia, a cercare di capire come descrivere il colore dell’Atlantico“. Ma siamo sicuri che lo sia davvero?

Ti basta l'Atlantico, lettere Virginia Woolf e Lytton Strachey

Sarebbe legittimo obiettare che dedicare del tempo a una lettera equivale a impiegarlo invano se per destinatario avessimo un fantasma, mentre un interlocutore in carne e ossa, per sua stessa definizione, non è mai veramente tale, e si può sempre immaginare che si presenti da un momento all’altro di fronte a noi:

“Sarebbe splendido se tu apparissi sulla mia soglia, soprattutto perché potrei spiegarti esattamente cosa intendevo quando ho scritto che sono un selvatico uomo dei boschi. Naturalmente, in realtà, non te lo spiegherei mai, ma ci sarebbe una poltrona per te, con un po’ di calore e di conversazione”.

C’è da concluderne che, il 28 aprile 1908, Virginia Woolf non mentiva affatto, quando scriveva a Lytton Strachey: “La tua lettera mi è stata di grande conforto. Avevo iniziato a dubitare della mia identità, e immaginavo di essere quasi un gabbiano, e di notte sognavo profonde pozze d’acqua blu, piene di anguille”. La carta, evidentemente, aveva e ha questo e ben altri poteri, se a usare l’inchiostro è la persona giusta.

Per la scrittrice inglese la persona giusta doveva essere quello stesso amico fraterno che l’aveva chiesta in sposa ed era stato da lei rifiutato, ma che non per questo aveva smesso nei 25 anni a seguire di sentirla, di vederla, di amarla, di rispettarla, di recensirla, di inviarle e di ricevere ogni sorta di bozza e di consiglio letterario (“ad ogni modo, qualunque cosa accada, l’importante è, come hai detto, piacersi a vicenda, e credo che nessuno di noi due dubiti minimamente di piacere all’altro”), e che a sua volta un giorno si rivolse a lei come segue:

“Se puoi, scrivimi una lettera enorme piena di racconti entusiasmanti e profonde riflessioni sulla vita umana. Ovviamente ne saresti in grado, ma lo farai?”.

Non siamo, quindi, nemmeno davanti a una questione di possibilità, bensì di scelte. Avremmo il diritto di evitare un certo confronto, di rimandarlo o di non considerarlo prioritario, eppure decidiamo di lasciarci andare a racconti e riflessioni perché, sotto sotto, ne ha bisogno tanto chi le legge quanto chi le mette nero su bianco.

Dopotutto, in una lettera, si ha l’occasione di nascondere tra un’informazione e l’altra questioni che ci stanno molto a cuore (“Ho tagliato il mio romanzo e pensato che fosse spaventosamente noioso. Quando torni?“), così come si può finire per intavolare discorsi sorprendenti sopra autori contemporanei e classici:

“Ci è stato chiesto di pubblicare il nuovo romanzo di James Joyce, ogni tipografia di Londra e molte nei dintorni l’hanno rifiutato. Prima c’è un cane che piscia, poi un uomo che si masturba, e si può essere monotoni pure su questo argomento. Inoltre, non credo che il suo modo di scrivere, assai ben rodato, preveda molto più che eliminare le spiegazioni e chiudere i pensieri tra trattini interpuntivi. Non credo dunque che lo faremo”.

O ancora: “Sono andata completamente in tilt con Delitto e castigo, cinquanta pagine prima del tè, e visto che sono solo 800, lo attraverserò in pochissimo tempo. È assolutamente ovvio che sia il più grande scrittore mai nato: e se decidesse di diventare orribile, cosa ci accadrebbe?“.

Ecco perché lo scambio di lettere tra Woolf e Strachey è stato pubblicato per la prima volta integralmente in Italia da nottetempo, sotto il titolo Ti basta l’Atlantico? e nella traduzione di Chiara Valerio, che a Roma e a Venezia ha tradotto le lettere di Virginia, e di Alessandro Giammei, che a Filadelfia e a Eugene (oltre l’Atlantico) si è dedicato solo a quelle di Lytton, l’una e l’altro attenti a non sbirciare le pagine a seguire prima di aver ricevuto la missiva precedente.

Grazie a questa singolare operazione veniamo a sapere, fra l’altro, che i due amici hanno ancora una vita, mentre la nostra è in pausa: “Se potessi fare come mi aggrada mangerei fuori ogni sera e andrei poi a una festa o all’opera, e poi mi godrei una cena a base di champagne, e poi andrei a letto tra le braccia di qualche persona meravigliosa. Non faresti lo stesso?“.

Sì, viene da rispondere d’istinto, farei lo stesso, per quanto il periodo non sempre lo permetta. Così, l’autrice incalza, mettendosi nei nostri panni e indossandoli con delicatezza: “Quando si contempla l’insipidità della propria effettiva esistenza, c’è da rabbrividire. Ma restano almeno i trionfi dell’Arte, suppongo”. E se non fossero sufficienti?

Virginia sembra ascoltarci, capirci, entrare di nuovo in dialogo con questi nostri pensieri, e allora ipotizza che certa avversione alle lettere sia dovuta “al fatto che sono tutte state scritte nel diciottesimo secolo […]. Eppure, non sembra esserci ragione per cui non dovremmo scrivere lettere persino il 16 novembre – o almeno, per non cui non dovresti farlo tu”, quasi che si trattasse di una terapia a costo zero (al netto della spedizione, s’intende) attuabile e benefica anche ai nostri giorni.

Eccola, perciò, la verità suggerita dalle parole stesse dell’autrice: scambiarsi delle lettere per qualcuno sarà pure un gesto superato, ma non per questo è mai diventato superfluo. Non per questo risulta meno magnifico in ciascuna delle sue parti – scriverle, leggerle e perfino tradurle e pubblicarle, a quanto pare.

La vera domanda, in altre parole, non è “perché scrivere delle lettere?”, bensì: “Perché no?“. D’altronde, lo cantava anche Vecchioni: “Le lettere d’amore / fanno solo ridere“, però basterebbe “scrivere d’amore / anche se si fa ridere, / anche quando la guardi, / anche quando la perdi”, perché “solo chi non ha mai scritto (o pubblicato, o tradotto, o letto) lettere d’amore / fa veramente ridere“.

Vero. Anche perché queste lettere, loro, fanno invece piangere di commozione.

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