Affrontare gli ostacoli, i cattivi maestri e le folli regole del gioco: il libro del cantautore Motta è un manifesto d’amore nei confronti della musica che assume le forme di un reportage di viaggio – L’approfondimento

Se esistesse un decalogo della musica, questa sarebbe senza dubbio la regola numero uno: innamorati della musica per fare viaggi impossibili, creare città che non esistono, esplorare mondi sconosciuti.

Se fare musica è un’arte, più complicato è raccontarla: acchiappare crome e semicrome fuori dal pentagramma, ripercorrere le emozioni alla base del loro intrecciarsi, descrivere il processo che ha permesso di metterle in sequenza.

“Partiti da lontano per arrivare a essere contenti”, cantava già nel 2016 in Del tempo che passa la felicità (La fine del vent’anni, Woodworm); e in effetti l’idea dell’essere artefice e protagonista di un percorso in divenire è una costante che attraversa tutti gli album di Francesco Motta (foto di Claudia Pajewski, ndr).

motta libro

33 anni, nato a Pisa da famiglia livornese, due dischi e svariate collaborazioni con artisti connazionali e non alle spalle, premio Tenco nel 2018, miglior duetto con Nada al Festival di Sanremo 2019… e adesso, un libro: Vivere la musica (Il Saggiatore) non è né un racconto autobiografico né un compendio di musicologia puntellato di nozioni o suggerimenti fini a se stessi: è un reportage di viaggio. Poliedrico, naturalmente ostile alle etichette di genere, traboccante di ispirazioni – proprio come chi lo ha scritto.

Dal primo ascolto del Requiem di Mozart nel salotto dei genitori a 7 anni alle esibizioni con i cartoni del supermercato per le strade di Dublino, dai campi di calcio al palco dell’Ariston, dall’Arno al Tevere; un itinerario mai lineare – e mai conclusivo – che ammette una e una sola guida: la musica.

Tre sono le parole-chiave che scandiscono questo “andare, andare”: immaginazione (“energia creativa” senza la quale tutto è impensabile); libertà, perché niente più della musica raccoglie le nostre infinite potenzialità di essere; empatia, perché “è un altro strano prodigio della musica: spesso non è in grado di salvare chi la scrive, ma può aiutare tutti gli altri a stare un po’ meglio”.

Il viaggio è in primis quello del musicista che prende possesso della propria arte: prima nella forma orgogliosa di una rivendicazione punk, come fuga dall’insoddisfazione della vita (“la porta mezza aperta e mezza chiusa che ci porterà via da tutto questo schifo”); poi, con maggiore consapevolezza, verso la scoperta e l’affermazione della propria identità.

La “verità”, intesa come assoluta fedeltà a se stessi in quanto artisti, è cruciale per chi vive la drammatica fortuna di aver fatto della propria passione una professione. Motta evoca, provando a esorcizzarli, gli spauracchi per eccellenza di chi crea: la minaccia della routine, il pizzicore amaro di una competenza tecnica che disturba la dimensione puramente spassionata dell’ascolto, l’apparente perdita di immediatezza che finisce schiacciata dalla bomba emozionale dei tour – e chi ha avuto l’occasione di sentirlo suonare live sa di cosa stiamo parlando.

[…] intonati rispetto alle stonature che sentiamo in noi. A tempo con noi stessi e accordati con il mondo.

La consapevolezza di sé, di una propria autenticità che deve molto ai modelli ma se ne deve necessariamente distaccare per esprimersi pienamente, nel faticoso processo di fabbricazione di una bussola interiore, è il primo passo necessario per vivere la musica nella sua sola forma possibile: il dialogo.

L’esperienza dell’ascolto nasce per sua natura da una condivisione: chi fa musica non può limitarsi a urlare al microfono quello che prova, ma deve dare a questo flusso un’eco collettiva. Le pagine più belle sono proprio quelle in cui Motta descrive il delicato processo di arginamento dell’autoreferenzialità: se l’input di qualsiasi espressione artistica è dato da un’emozione personale, solo spostando il soggetto, la prospettiva esistenziale, è possibile instaurare quel “racconto generale” dato dalla connessione tra chi parla e chi ascolta. Basta poco, quindi – il passaggio da “io” a “lei”, l’inserimento di un’immagine fuori dagli schemi in un contesto routinario –  per far scattare quell’empatia che è il nocciolo del potere terapeutico della musica.

In questa ottica universale, nella musica tutto è testo, anche ciò che non è letterale.  E proprio per il continuo e necessario ribaltamento di prospettive, frutto di una marea costante che riporta sempre sulla propria dimensione personale con uno sguardo nuovo, la musica ha in sé – ancora una volta – l’essenza del viaggio, le potenzialità dell’inatteso, l’orizzonte come obiettivo guida ma non destinazione ultima.

Con la musica oggi cerco questo: andare a dormire contento di quello che faccio.

Svegliarmi pensando che non si arriva mai, che non esiste una meta definitiva ma soltanto un infinito viaggiare, e che ogni fine è in realtà un inizio.

Vivere la musica è il manifesto d’amore di chi non ha rinunciato a guardare con lo stupore del bambino le armoniche stonature della vita; e ha trovato un modo schietto e viscerale – proprio come la sua musica – di raccontarlo anche sulla pagina.

 

Fotografia header: Motta - foto di Claudia Pajewski

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