Testo quantomai attuale in ragione della complessità delle tematiche trattate (quasi un corollario del movimento Black Lives Matter, oltre che potenziale baricentro di riflessione – stavolta tutto italiano – relativamente al progetto di legge Zan contro l’omotransfobia), nonché prosa d’autore dalla caratura millennial, “Lot”, la raccolta di racconti di Bryan Washington, solleva il lamento di una prigionia senza catene (quella di un conflitto di identità sociali), direttamente dai sobborghi di un’America ancor oggi barricata dietro l’ombra di insormontabili muri di separazione – L’approfondimento

Localizzate in topografie urbane che tanto somigliano a organismi pluricellulari, è con fisiologica voracità che le periferie distrettuali di Bryan Washington – al suo esordio italiano con Lot, traduzione di Emanuele Giammarco per Racconti Edizioni – sistematicamente uniformano le aspirazioni individuali dei suoi abitanti (la gente del vicinato) a monolitiche lottizzazioni di massa, cui è obbligo aderire senza possibilità di fuga alcuna.

Bryan Washington

LEGGI ANCHE – “Many authors haven’t met poor people and that’s very clear in their writing” – Bryan Washington sul Guardian 

Non a caso, è nella rigida compartizione del microcosmo americano – una Houston condivisa, identitariamente livellata fra inclusivismo e disuguaglianza – che lo slang di Lot lessicalmente dichiara la marginale sfida dellessere minoranza fra le minoranze; e non solo attraverso le numerose sfumature che, sul piano linguistico, sapientemente bilanciano relazioni altrimenti intraducibili (da blanquitos a gabachos, da maricones a sucios aeros a chinos) ma, soprattutto, sottolineando quello stringente obbligo di appartenenza che, indipendentemente dalla singolare percezione del sé, spesse volte sconfina in una automatica personalità di gruppo (“Ci chiamavamo tutti per nome lì. Definirci amici sarebbe un’esagerazione, in realtà definirci qualsiasi altra cosa che non fosse quello che siamo”).

In tal senso, non vi è chi non veda come sottaccia, nell’ibridismo stilistico di Lot (è il lavoro di Bryan Washington una raccolta di sette racconti autoconclusivi, ma perfettamente impilati sulle sei sezioni della trama principale, tutto a tematica queer) tanto una perfetta rappresentazione dell’hinterland umano a fondamenta della poetica autoriale – dalle questioni di letto (e lutto) della giamaicana Aja, nella chiacchieratissima Alief, “giusto sopra i villini da sessanta acri, anche se il quartiere è il peggiore che puoi trovare da queste parti”; ai rinvenimenti di chupacabra nelle foreste sperimentali di Bayou “li abbiamo visti entrare nell’acqua, oltre il ruscello, sotto i palazzi (…) e sono andati via per sempre”, financo alle multietniche scorribande di Poke, Rod, Avery e Raùl sui sottopassaggi della Waugh “conosceva le strade come se le avesse pavimentate lui”. – quanto, e soprattutto, una personalissima panoramica sulla condizione dei lavoratori omosessuali Black e Latinx nelle zone popolari della sua città d’adozione – così, in ottica gender-free, in un’intervista della prestigiosa associazione LGBTQ Lambda Literary -.

Bryan Washington «LOT» (Racconti)

È, infatti, nei capitoli intitolati a Lockwood; 610 North, 610 West; Wayside; Lot; Navigation e Elgin che la storia di formazione e coming-out del giovane protagonista (afroamericano da parte di madre, latinoamericano da parte di padre) crudamente dipana, dapprima attraversando una Houston gentrificata  dove il fenomeno dell’emarginazione sociale sembra intensificarsi parallelamente all’evolvere dei complessi rapporti fra comunità inter-razziali, sessuali e familiari (“peggio di un padre tossico c’è solo un figlio frocio, così mi ha detto Javi”), poi metaforicamente incrociandosi con le dirompenti riorganizzazioni geografiche ed emozionali derivanti dal flagello Harvey (l’uragano che, nel 2017, devastò i territori a sud-est del Texas e della Louisiana “era un segno, ci giurava. L’ennesima cosa andata in malora”) e quindi, da ultimo, acquisendo nuovi connotati sentimentali, ma con una presa di coscienza (e tenerezza) tanto inesplorata quanto transitoria (“e, onestamente, mi chiedo come sia possibile scappare via da tutto ciò”, ci suggerisce uno smaliziato Nicolàs, ormai sommessamente consapevole, “una volta, pensavo si potesse”).

Testo quantomai attuale in ragione della complessità delle tematiche trattate (quasi un corollario del movimento Black Lives Matter, oltre che potenziale baricentro di riflessione – stavolta tutto italiano – relativamente al progetto di legge Zan contro l’omotransfobia), nonché prosa d’autore dalla caratura millennial (sciolta nel linguaggio, ma colta nelle ispirazioni; fra le opere di riferimento si annoverano  Real World di Natsuo Kirino nella traduzione di Gianluca Voci, per Neri Pozza; Anche noi l’America nuova di Cristina Henrìquez, traduzione di Roberto Serrai, di NNE; la raccolta A Good Fall di Ha Jin, per Vintage Books, oltre alla copiosa lista degli scrittori letti dalla sensuale Gloria nel capitolo Sheperd, tra i quali Javier Marìas, Roberto Bolaño, Virginia Woolf e Italo Calvino) l’opera di Bryan Washington solleva il lamento di una prigionia senza catene (quella di un conflitto di identità sociali), direttamente dai sobborghi di un’America ancor oggi tristemente barricata dietro l’ombra di insormontabili muri di separazione e pregiudicanti bigottismi di frontiera.

Può interessarti anche

Libri consigliati