“Ho una domanda: ha un senso stabilire se l’attacco e l’omicidio abbiano radici nella misoginia, siano il risultato di una cultura omofobica, o rappresentino l’esito di una cultura transfobica? In termini più politici: perché la lotta contro l’omofobia, la transfobia o la misoginia dovrebbero essere in antagonismo? A me sembra che quando incontra l’attivismo social, la lotta ‘politica’ si trasformi in una dichiarazione di appartenenza a una comunità pop in lotta (una feroce lotta pop) con un’altra”. Su ilLibraio.it la riflessione di Federica Sgaggio in occasione dell’uscita de “L’eredità dei vivi”, romanzo “politico” che racconta la storia di una donna e di una famiglia

Una persona è nata con un corpo femminile e si sente uomo. Quella persona viene aggredita, ma a morire è la sua compagna.

Ho una domanda: ha un senso stabilire se l’attacco e l’omicidio abbiano radici nella misoginia, siano il risultato di una cultura omofobica, o rappresentino l’esito di una cultura transfobica? In termini più politici: perché la lotta contro l’omofobia, la transfobia o la misoginia dovrebbero essere in antagonismo? Perché i luoghi virtuali nei quali io cittadina posso condurre una battaglia (non so più se politica o no) sono così asfittici da escludere ogni altra cosa anche contigua? A me sembra che quando incontra l’attivismo social, la lotta ‘politica’ si trasformi in una dichiarazione di appartenenza a una comunità pop in lotta (una feroce lotta pop) con un’altra. E il guaio è che molte di queste comunità indossano la stessa maglietta del Che.

Per dirla con Mark Fisher, “il capitalismo è quel che resta quando le idee sono collassate al livello del rituale o dell’elaborazione simbolica”. Sui social, siamo personaggi in una specie di film al quale lasciamo il compito di mettere in scena il nostro anticapitalismo, o il nostro anti-qualunquealtracosismo.

Come se non bastasse – morti i partiti, morta la supremazia della rappresentanza sulla ‘governabilità’ –, l’isolamento politico in cui nuotiamo come pesciolini muti ci porta a credere che la somma di comportamenti individuali commendevoli produca – oh! – rivoluzioni politiche: cosa che alimenta vacue fiammate di attivismo volontaristico (“Puliamo i muri!”, “Liberiamo le spiagge dai rifiuti!”). La lettura del reale che ne esce è purtroppo innanzitutto moralistica: “L’hai pulita, tu, la spiaggia? No? E allora come ti permetti di parlare?”. “L’hai messa, tu, la mascherina?”. “E tu, tu che critichi, che cos’hai da proporre – tu – in alternativa?”.

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E così, vai di guerre. Gruppi che elogiano modelli sacrificali di femminilità, gruppi che rivendicano l’autonomia di decisione solo per le donne che ritengono adatte a poter decidere per sé… Uno steccato dopo l’altro, e tutti a darsi addosso: così che, nel frattempo, siamo sconfitti tutti – donne, persone omosessuali, trans, queer, disabili, persone con problemi di malattia mentale, straniere, povere… Sconfitti uno per uno, vita per vita, corpo per corpo: perché l’avversario comune conosce bene – lui sì – l’arte della compattezza, l’arte di farsi unico corpo.

Sono stata una bambina che partecipava alle riunioni di partito, che viveva la vita di un’associazione di familiari di bambini disabili: mio fratello è disabile – la sua condizione è un dono ospedaliero – e mia madre faceva parte di un’associazione. Sono stata una bambina che, per essere parte fiera e involontaria di ciò che allora si definiva “politica”, doveva uscire di casa e muoversi per raggiungere un luogo. Per trovare un posto adeguato in cui sedermi – e cercarlo sufficientemente lontano dal centro delle cose perché ero piccola, ma abbastanza vicino a mia madre perché il mio tramite alla politica era lei – dovevo fare, inconsapevole, una ricognizione topografica. Dovevo ascoltare, guardare; darmi il tempo di capire qual era la dinamica in azione. C’erano quasi sempre dei ‘buoni’ e dei ‘cattivi’; chi voleva fare una cosa e chi voleva farne un’altra.

Ma, tutti insieme, avevamo – oddio: davvero ce l’avevo anch’io? – una struttura ideologica, un luogo, e un obiettivo che ci sembrava comune. Per esempio, l’apertura delle scuole ‘normali’ ai bambini disabili, che all’epoca solo i guerriglieri sociali più à la page chiamavano ‘handicappati’ invece che ‘spastici’ o ‘mongoloidi’.

Dalla porzione di realtà in cui vivevo la mia storia di bambina, i miei occhi hanno visto che la lotta per i diritti dei disabili respirava la stessa aria di qualunque altra lotta per qualunque altra soggettività politica che prendeva voce: le donne, le persone omosessuali, le prostitute, le persone a cui Franco Basaglia restituì autodeterminazione. La chiusura dei manicomi non era un obiettivo politico che potesse venire perseguito a spese del diritto all’aborto, Emma Bonino non era un’avversaria, e Pia Covre non era una ‘nemica’; con la sinistra Dc si dialogava, e perfino coi dorotei. Era un modo ‘proporzionale’ di intendere la politica: chiunque portava la sua specificità, mediava con gli altri, si concentrava su obiettivi credibilmente perseguibili.

Non occorreva essere vincenti, non serviva essere dei cinquanta-più-uno-per-centi. C’era spazio anche per i duepercenti, perché si trattava di mettere al mondo un’idea di mondo. Era un atto ostetrico, fisico, carnale che implicava il corpo. Il corpo di mia madre, che era pancia ed era testa; il corpo di mio fratello, imperfetto e tenerissimo; e il corpo mio, che cercava corpi amici per farsi forza e credere nel collettivo.

federica sgaggio

L’AUTRICE – Federica Sgaggio vive tra Verona, dove è cresciuta e dove ha lavorato come giornalista, e Galway, in Irlanda, dove studia letteratura inglese. Ha pubblicato i romanzi Due colonne taglio basso (Sironi 2008) e L’avvocato G. (Intermezzi 2016), e il saggio Il paese dei buoni e dei cattivi. Perché il giornalismo, invece di informarci, ci dice da che parte stare (minimum fax 2011). Nel 2015 ha curato con Catherine Dunne la raccolta italo-irlandese Tra una vita e l’altra (Guanda; uscito con il titolo Lost Between: Writings on Displacement per New Island Books).

L’eredità dei vivi (Marsilio), il suo nuovo romanzo, è la storia di una donna, di una famiglia, ed è un romanzo politico, se politica è la lotta da combattere per attraversare i cambiamenti, per godere dei propri diritti, per avere la vita che si desidera avere.

La trama ci porta alla fine degli anni Cinquanta, quando Rosa si trasferisce dal Sud al Nord d’Italia. È una donna intransigente, una combattente. Insegna a sua figlia – colei che ci racconta la storia – che il primo comandamento cui ogni donna deve obbedire è: “Non piangere”. Ed è anche la madre di Francesco, che a causa di un incidente occorso subito dopo il parto soffre di una forte disabilità. Così lei lotta per rendere migliore la vita del suo bambino, e la sua diventa presto una lotta per i diritti di tutti coloro che non possono combattere per se stessi. Nel romanzo, Rosa è una madre della quale la figlia racconta la vita; ma è anche, semplicemente, l’Italia: l’Italia ancora stordita dalla guerra degli anni Cinquanta, quella euforica dei Sessanta, quella turbinosa dei Settanta, quella privatizzata degli Ottanta, quella svuotata dei Novanta. Un’Italia, Rosa, messa alla prova: da un marito da cui sceglie di fuggire, dalla disabilità del figlio, dalla figlia con la quale il rapporto è tanto stretto quanto conflittuale, dai cambiamenti sociali e politici che le avvengono intorno. Ma anche la figlia, che ricorda e racconta, è l’Italia: l’Italia d’oggi, quella che non intende rinunciare alla propria storia, e che vuole inventarne una nuova.

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