Nei versi di Louise Glück, vincitrice del premio Nobel per la Letteratura 2020, accanto all’onnipresenza della morte, del dilemma, del conflitto, dell’interrogazione, ci si trova anche a fare i conti con una strana e disagiante tenerezza dei versi, che crea instabilità, perché inaspettata. Questo carattere contraddittorio è una delle forze più originali della sua poesia, la sua personalissima declinazione della leggerezza nel trattare tutta la pesantezza della vita, della sofferenza, attraverso una parola precisa – L’approfondimento

“Quando voglio essere felice leggo un romanzo”. Così si esprime Louise Glück in una intervista rilasciata nel 2012, mentre ripone, invece, la lettura di poesia alle ore notturne, i versi all’indagine di un rapporto tra sé e il mondo declinato spesso nell’incontro col dolore, con la sofferenza, andando “al cuore dell’esistenza senza compromessi né tentativi consolatori” (sono parole di Elisa Biagini dall’introduzione al volume Einaudi Nuovi poeti americani, dove veniva antologizzata anche Louise Glück, per l’appunto).

l'iris selvatico Louise Glück

Eppure, nelle pagine di Glück, almeno a leggere L’iris selvatico e Averno (il Saggiatore, traduzione di Massimo Bacigalupo) appena ripubblicati, accanto all’onnipresenza della morte, del dilemma, del conflitto, dell’interrogazione, ci si trova anche a fare i conti con una strana e disagiante tenerezza dei versi, che crea instabilità, perché inaspettata, fredda, spietata nel suo tentativo “di dare voce a queste impressioni” (così si legge in Echi).

Non a caso la poesia di Glück è una poesia dell’aria aperta, che sia il giardino dell’Iris selvatico o l’averno: persino la discesa agli inferi non ha quella pesantezza claustrofobica: la parola precisa, semplice, tagliente crea spazio intorno al soggetto, intorno al lettore. E questo carattere contraddittorio è una delle forze più originali della poesia di Glück, la sua personalissima declinazione della leggerezza nel trattare tutta la pesantezza della vita, della sofferenza, attraverso una parola precisa, semplice, colloquiale, un lessico che ammette poche varianti e poche esplorazioni e su cui, tuttavia, si condensa una densità semantica forte, grazie alle pause, ai vuoti, ai silenzi, alle ellissi – che ancora danno aria al testo: in quelle faglie della lingua, seguendo la lezione di Emily Dickinson, il lettore è chiamato a interrogare il testo, a partecipare e a condividere la voce individuale e singolare dell’io (e infatti Glück è stata spesso accostata alla confessional poetry), che pure cerca una costante comunione nella sua esperienza di vita (e si intravede qui il versante più whitmaniano di questa ricerca poetica).

Louise Gluck - Katherine Wolkoff

Louise Gluck – foto di Katherine Wolkoff

Questo continuo rapporto con il lettore è uno dei punti centrali della poetica di Glück, e non a caso la poetessa vi insiste anche nel discorso di accettazione del Nobel, parlando di “poems to which the listener or reader makes an essential contribution, as recipient of a confidence or an outcry, sometimes as co-conspirator”. Basti pensare all’incipit di Le migrazioni notturne che apre Averno: “Questo è il momento in cui vedi di nuovo / le bacche rosse del sorbo selvatico”, in cui il verbo alla seconda persona può indifferentemente riferirsi all’io stesso e chiamare in causa allocutivamente il lettore, porlo in situazione (attraverso in primo luogo la vista), costringerlo alla condivisione di quella esperienza, che si presenta, come spesso in questi testi, ripetitiva, non nuova, piuttosto ciclica, rituale (“è di nuovo inverno, è di nuovo freddo”, così si apre Ottobre).

Questa costanza del ritorno (dell’inverno, dell’autunno, del freddo, della morte, che per certi versi pure potrebbe far pensare a un Eliot riletto in maniera affatto originale) sta lì a segnalare il continuo impietoso ripresentarsi delle ferite della brutalità del mondo, che la poesia di Glück, come nota José Vicente Quirante Rives nella postfazione a Averno, non guarda con autoindulgenza, ma racconta senza alleviarla (un racconto che, tuttavia, non è facile, come testimoniano le costanti figure della negazione e dell’interrogazione).

Il tema della morte è, d’altronde, onnipresente in queste raccolte e assume varie figure, da quelle mitiche di Persefone (in Averno) o di Euridice (in Vita Nova), a quelle della natura (insieme amica e amara) fino ai costanti revenants (ecco ancora i ritorni). Questo ritornare continuamente (anche nei titoli, ne L’iris selvatico sette testi si intitolano Mattutino e dieci Vespro – e la maggioranza del secondo termine non sarà certo un caso) è anche figura della quotidianità che scandisce la vita e che è contemporaneamente sforzo, sofferenza e conforto (come la natura, come la parola, come la poesia) e fa da contraltare alla forte dimensione metafisica presente nelle raccolte di Glück: molto spesso, infatti, il discorso cosmico, sulle verità generali, è riportato sul piano prosaico della vita di tutti i giorni (“devi augurarti, per il bene del contadino, / che l’assicurazione paghi” e si legge in Il biancospino che “gli esseri umani lasciano / segni di sentimento / dovunque”, e alla poesia spetta il compito di ricercarli).

averno Louise Glück

E non potrebbe essere altrimenti per una poesia così lacerata dal dubbio: “Come se l’artista avesse / il dovere di creare / speranza, ma con cosa? cosa?” e continuamente protesa a interrogare se stessa oltre che il mondo che la circonda – e certe domande quasi sembrano creare una situazione da seduta psicanalitica.

È la stessa parola poetica, per quanto precisa e diretta, chiara e sicura, a vivere in una condizione di intrinseca ambivalenza: “La parola era un codice, misterioso, come la stele di Rosetta. / Era  anche un cartello stradale, un avvertimento” e che tuttavia è in grado di offrire un certo conforto (“Non sei sola, / diceva la poesia”), proprio come il mondo naturale, che si presenta con le stesse ambivalenti caratteristiche dell’arte: la terra è sia bellissima (“mi è apparsa di nuovo / una visione dello splendore della terra”) che fonte di dolore; è madre e donna e morte – e questo incontro con il mondo è costantemente ricercato.

Non a caso, insieme all’onnipresenza del tema della fine, la poesia di Glück è anche animata dal riproporsi di immagini di luminosità, di nascita e di rinascita: oltre che dell’aria questa è anche una poesia della luce, che si tratti di quella fredda e gelida della neve dell’inverno o di quella del biancospino. Perché di fronte a tutto il dolore, a tutta la violenza, a tutto lo spreco che questa poesia così precisamente racconta, il corpo, attraverso cui mondo è vividamente esperito, rimane tenacemente, teneramente, ancorato alla vita: “depressa, sì, ma in qualche modo / appassionatamente / attaccata all’albero vivo, il mio corpo / effettivamente / rannicchiato nel tronco spaccato, quasi in pace, / nella pioggia serale / quasi capace di sentire / la linfa fermentare e salire”.

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