Grazie a Bompiani e alla curatela di Marta Barone, torna in libreria una delle più grandi scrittrici del secondo Novecento: Marina Jarre (Riga, 21 agosto 1925 – Torino, 3 luglio 2016), autrice, tra gli altri, di “Negli occhi di una ragazza”, “Un leggero accento straniero”, “Ascanio e Margherita”, “Ritorno in Lettonia”. Il titolo che inaugura la sua riscoperta è “I padri lontani”, la sua “autobiografia”, come la chiamava, uscita per la prima volta nel 1987 per Einaudi – L’approfondimento

Le voci dimenticate nel corso degli anni – o quelle che sono state sepolte ancora prima di farsi sentire – sono incalcolabili, sono una cifra avvilente.

È una fonte di gioia altrettanto incalcolabile, una reazione quindi uguale e opposta, quando una di queste voci viene ritrovata, e una delle più grandi scrittrici del secondo Novecento può ricominciare a dialogare con le lettrici e i lettori di oggi, riprendendo con naturalezza la conversazione.

Grazie a Bompiani e alla curatela di Marta Barone, torna in libreria Marina Jarre (Riga, 21 agosto 1925 – Torino, 3 luglio 2016), autrice, tra gli altri, di Negli occhi di una ragazza, Un leggero accento straniero, Ascanio e Margherita, Ritorno in Lettonia

Il titolo che inaugura la sua riscoperta è I padri lontani, la sua “autobiografia”, come la chiamava, uscita per la prima volta nel 1987 per Einaudi.

I padri lontani, Marina Jarre

Nata in Lettonia, cognome paterno Gersoni con la “g” dura, madre italiana con ascendenze francesi, prima lingua il tedesco: la vita di Jarre fin dall’inizio è composta da fili sottili che con un colpo di mano possono annodarsi o finire in direzioni opposte.

Quando i genitori si separano, un divorzio travagliato che richiederà dieci anni di udienze, processi, carte documentali, Jarre e la sorella vengono portate in Italia all’insaputa del padre, a Torre Pellice, a casa della nonna materna. Tra le montagne piemontesi Marina Jarre entra in contatto con la comunità valdese, impara insieme il francese, la lingua che insegnerà a scuola, e l’italiano, la lingua in cui scriverà i suoi romanzi.

Questa frammentazione, del linguaggio, della famiglia, si rifletterà in una ricerca costante di un’identità, nell’attenzione verso le pieghe interiori che non porta in sé alcun giudizio, ma solo pura osservazione.

Si vede in Un leggero accento straniero, romanzo del 1972, dove si incrociano i destini di Klaus, ingegnere “svizzero” con un passato da SS, e quelli di una “banda” di amici, tra cui spiccano il malinconico Carlin, Filippo, la cui solidità fa da contraltare alla nervosa genialità dell’amico, Patrizia, rampolla di buona famiglia che cerca di liberarsi da una relazione soffocante e Maria Grazia, sempre leggermente fuori luogo ma acutissima.

I capitoli di Klaus sono narrati in prima persona, una ricostruzione dei suoi anni in Germania, delle prime esperienze sessuali unite alle prime esperienze nel corpo delle SS.

Se cerca di raccontare il proprio punto di vista con lucidità e distacco, mano a mano la sua diviene un’accorata difesa delle sue azioni, mentre contemporaneamente lavora sul suo mimetizzarsi nella società torinese. Le avventure della banda sono invece spezzettate tra i diversi punti di vista: ogni componente ha il suo modo di vedere le cose e un proprio credo a cui fare fede.

Un leggero accento straniero, Marina Jarre

Seppure a un certo punto si inserisca una trama di smascheramento, quando Carlin inizia a sospettare i trascorsi di Klaus, l’unica vera opposizione al tedesco da un punto di vista strutturale è rappresentata da Daria, tangenziale alla banda in quanto fidanzata di Filippo: dopo un capitolo iniziale in cui viviamo la guerra attraverso i suoi occhi di bambina ebrea rifugiata in un paese di montagna, mano a mano si sottrae dalla narrazione, fino a cancellarsi completamente. Sempre più abbiamo di lei dei ritratti forniti dagli altri, spesso nemmeno lusinghieri. Non è un caso che Klaus e Daria non si incontrino mai: mentre lui si allarga e prende spazio, in una vera e propria arringa difensiva, l’energia della Daria bambina, che inizia ad appropriarsi del mondo, decodificando i fatti intorno a lei e imparando a leggere, viene gradualmente meno. Costruire una storia tenuta in piedi da questi equilibri sottilissimi, che riesce così bene a incarnare un significato universale nel rapporto tra alcuni personaggi e nell’organizzazione stessa del materiale in un’ottica anche formale è un talento di Jarre perché è, per l’appunto, una finissima osservatrice dell’esterno e dell’interno, quasi fosse lei stessa una membrana con la capacità di filtrare i due luoghi.

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Uno degli eventi ricordati, di sfuggita, da Klaus è lo sterminio degli ebrei di Riga del 1941: tra le vittime c’è il padre della stessa Jarre, e la sorellastra Irene.

Nonostante I padri lontani sembri quindi, dal titolo, voler ricreare un legame con questo genitore quasi sconosciuto, scomparso prematuramente dalla sua vita, è in realtà l’analisi, limata e rielaborata nel corso degli anni, di come Marina Jarre sia stata infine madre e padre di se stessa.

Da un’immagine all’altra, subitanee e improvvise come lo sono i ricordi, coerenti tra di loro proprio perché sono ricordi, si compone il racconto di una vita preciso, a tratti persino ironico. Nell’infanzia si è modellata in concerto e in contrasto con la sorella Sisi, la prediletta della madre; nell’adolescenza ha la nonna come punto di riferimento, ma una nonna di cui avverte la profonda compassione per il condiviso destino di donne; nell’età adulta riesce per la prima volta a percepirsi in tutte le sue rifrazioni con la nascita dei figli, e cerca infine di venire a capo del rapporto con la madre, figura ancora sottilmente manipolatrice, ma consapevole del potere che sta perdendo con l’età e dell’inevitabile inversione dei ruoli che aspetta le due.

“Vi sono giorni in cui il cielo sopra Torino è immenso”, così inizia la sua rievocazione, ad allargare il cielo della sua età più adulta fino ad abbracciare tutti i firmamenti sotto cui si è addormentata.

Riga, Torre Pellice, Torino: ogni macro parte è dedicata a una fase della vita, e a una città. Divisa tra Paesi diversi, tra i genitori, ebreo l’uno, valdese l’altra; tra il tedesco, il francese e l’italiano: la sua scrittura riesce nell’incredibile paradosso di essere esatta persino là dove è imprecisa, con l’intuito di chi maneggia una lingua che non è quella natale.

Non si perde nemmeno per un momento in uno sfoggio di virtù linguistica, ma rimane aderente alla materia che sta narrando, arrivando così a pagine di una bellezza ridotta all’osso e quindi più lucente. Si svela senza intermediari, nei sentimenti più puri e negli aspetti meschini. Osserva la guerra, in cui non riesce a scendere completamente in campo, pur collaborando di tanto in tanto con amici partigiani. Ha improntato la sua vita “alle regole”, ma i suoi tentativi di indirizzare la rabbia che le cova dentro fin da bambina la portano anche a infrangere ripetutamente queste stesse regole, con un tempismo sempre leggermente stonato.

È tornandoci sopra, in età avanzata, e riportando con ordine tutte le sensazioni provate e i pensieri pensati, che Marina Jarre trova un ordine, un senso, seppur provvisorio come si aspetta siano le pagine che scrive.

Dal dolore per il confronto continuo con Sisi, che ha un dono naturale per trovare il proprio posto nel mondo infischiandosene delle “regole”, alla mancanza della madre, giudice severa che sente di non poter mai soddisfare, al contatto con il Dio barbetto, alla difesa di uno spazio personale quando la Storia si presenta per chiedere un contributo: tutto viene offerto a chi legge, con la prospettiva di farne quello che si sente.

La facilità con cui riesce a ricreare la se stessa bambina e poi adolescente, raccontandole senza snaturare quella che era la sua realtà di allora, si riconosce nella formazione di altri personaggi che sono realmente giovanissimi, e non come gli adulti si aspettano siano i giovanissimi.

Un esempio luminoso è Maria Cristina, protagonista di Negli occhi di una ragazza (1971). La voce con cui mette in ordine i fatti, le cose intorno, quelle nominate e quelle non nominate, così complesse da sviscerare – sono quelle non nominate che interessano la Marina Jarre dei Padri lontani – è acuta e struggente insieme, con quella chiarezza sincera e già un po’ ferita che si ha a tredici anni. È una storia molto piccola quella di Maria Cristina, una madre malata, un fratello impegnato nelle occupazioni e un’amica che scappa via con un ragazzo più grande: nella sua narrazione Jarre la riscatta dal ritratto di “stupida” che passa all’esterno – quasi un doppio della Daria di Un leggero accento straniero – e allo stesso tempo illumina uno spaccato di vita condiviso da tutte le altre ragazze.

Negli occhi di una ragazza, Marina Jarre

Nel chiudere I padri lontani, come anticipato, Marina Jarre affida le sue pagine alla provvisorietà: e ora che questo è il primo titolo a tornare in libreria, questa provvisorietà si rinnova felicemente.

Fotografia header: Marina Jarre © 1990, A.D.P. Foto Panato

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