“Una delle cose che da sempre mi interessano di più nei libri che leggo è il modo in cui il narratore o il poeta esplora la memoria e il tempo”. Su ilLibraio.it il percorso di lettura a tema di Marta Barone, traduttrice e scrittrice all’esordio nella letteratura per adulti con “Città sommersa”: da Vladimir Nabokov ad Anna Maria Ortese, passando per Marina Jarre e Marguerite Yourcenar…

Una delle cose che da sempre mi interessano di più nei libri che leggo è il modo in cui il narratore o il poeta esplora la memoria e il tempo. Mi affascinano le infinite variazioni con cui la memoria entra nelle storie, le sue stratificazioni, i dettagli che scatenano il ricordo, le falsificazioni involontarie, la percezione individuale. Qui provo a elencare alcuni dei libri “sulla memoria” (o meglio, in cui la memoria ha una parte fondamentale) più importanti per me e per la mia formazione.

Vladimir Nabokov, Parla, ricordo

Vladimir Nabokov, Parla, ricordo

A ben vedere, quasi tutti i romanzi di Nabokov sono posseduti dalla memoria, che sia di finzione o una versione alterata della propria. Penso a Pnin, che persino nella sua buffa parlata vive nel ricordo corporeo della sua Russia perduta e non crede davvero in Dio, ma, confusamente, in una democrazia di fantasmi che tornano occasionalmente a visitarlo; o al Dono, capolavoro del romanzo nel romanzo, dove la memoria occupa uno spazio sublime nella vita umile e faticosa da poeta fallito del protagonista emigrato a Berlino, e lo innalza al di sopra del suo quotidiano. Ma l’autobiografia di Nabokov, per quanto parziale, quasi solo limitata all’infanzia (non va oltre l’adolescenza e gli studi a Cambridge) – e del resto, come dice Michele Mari, cosa ci succede di importante dopo gli undici anni? – è uno straordinario, irripetibile esperimento sulla sua capacità di ricordare, di ricreare personaggi scomparsi e sensazioni inaudite della primissima infanzia, di ridare vita a giardini e umani, con il suo meraviglioso attaccamento al dettaglio e alla descrizione profonda e rapita, così ricca di colori vividi, suono e lirismo da persistere persino in traduzione (si veda la descrizione delle nuvole nel capitolo in cui scrive la sua prima poesia). E nessuno come Nabokov, credo, si è attaccato al ricordo con tanta ostinazione: come quando cerca di rammentare il nome del cane di una bambina a cui si era affezionato durante una vacanza al mare, e descrive lo sforzo, il tentativo, e infine il nome gli viene donato dai flutti della memoria, come un’eco straziante della sua infanzia di felicità perfetta: Floss, Floss, Floss

Marguerite Yourcenar, Quoi? L’éternité

Marguerite Yourcenar, Quoi L’éternité

Questo è il terzo libro della biografia familiare di Yourcenar, incompiuto perché purtroppo è morta durante la stesura. È anche il più affascinante perché tenta di mettersi nei panni di due persone che ha conosciuto bene: suo padre e la sua amante, grande amore e grande affetto di Yourcenar bambina. Nei primi due (Care memorie e Archivi del nord) cerca di ricostruire prima sua madre, morta di parto, e poi le origini della sua famiglia. La memoria è un elemento essenziale della scrittura di Yourcenar, a partire da Memorie di Adriano, in cui l’imperatore di cui immagina i ricordi in fin di vita tenta di “opporsi al tempo”, lasciando un segno “da un uomo smarrito in quella successione di secoli”. Yourcenar sa che delle vite passate, le vite reali, non resta che uno scheletro di foglia che occorre rimpolpare, e questi tre libri sono un tentativo di dare linfa a creature che non ha mai sentito parlare o di cui ha solo immaginato gran parte della vita, gli amori, le conversazioni: ciò che, sa benissimo, è davvero importante nella vita di un uomo e di una donna; gli “elementi innumerevoli” che danno forma a chi poi verrà dimenticato. Forse nessuno scrittore come Yourcenar ha il senso profondo dei secoli e dei millenni e dei miliardi di individui che li hanno abitati. La memoria come senso del tempo e della storia, la memoria per cui lanci una bottiglia in mare e se, come scrive in Pellegrina e straniera, quella bottiglia danzerà sul mare senza che nessuno la raccolga, “avrai almeno fatto galleggiare un fragile oggetto umano sulla superficie delle onde”.

Danilo Kiš, Dolori precoci

Danilo Kiš, Dolori precoci

Tutta l’opera di Kiš è innervata di memoria: anche di memoria immaginaria, come nel caso di Una tomba per Boris Davidovič, dove cerca di raccontare le prigioni e i lager sovietici, o in Enciclopedia dei morti, dove addirittura, sulla linea di Borges e di Schwob, immagina un’enciclopedia di vite normali, con la stessa ossessione per gli individui qualunque di Yourcenar. Ma è nella trilogia violacea come un livido eterno di Clessidra, Giardino, cenere e Dolori precoci che Kiš tocca e trasfigura la storia che lo perseguita: quella della sua famiglia nella Jugoslavia d’anteguerra e la fine di suo padre, ebreo, che viene deportato e ucciso. In Clessidra la deformazione tocca vette feroci, anche se non smettiamo mai di chiederci quanto ci sia di vero in quei continui simil-interrogatori che diventano lunghissimi elenchi e si aprono in descrizioni di un tempo e di un uomo che diventa pazzo e di cui la fine resta avvolta in una specie di nebbia benefica. In Homo poeticus, una raccolta di interviste e di saggi imperdibili, Kiš parla di questa ri-creazione pressoché totale del personaggio di suo padre e racconta una cosa interessante: il giorno in cui sua madre, non ebrea, ha dovuto cucire le stelle ebraiche sul suo giacchino di bambino e su quello di suo padre. Questa scena non entrerà mai da nessuna parte, dice: perché è troppo dolorosa, troppo atroce, troppo scandalosa per entrare nella scrittura. Eppure non lesina sulle atrocità, non si risparmia sui particolari terrificanti o disgustosi, anche della pazzia del personaggio che dovrebbe corrispondere a suo padre. Ma la sofferenza di quel giorno resta una cosa a parte. Penso spesso a quelle frasi. Dolori precoci è una raccolta di schizzi, di ricordi struggenti e poetici, il più condensato e più dolce dei libri di Kiš, in cui la sua infanzia prende vita per immagini che non durano mai più di qualche pagina ma che restano fortissime e struggenti nel lettore, una piccola opera di poesia in prosa dove la Singer della madre assume una grandezza e una tenerezza che supera qualsiasi distruzione e qualsiasi passaggio del tempo.

Marina Jarre, I padri lontani

Marina Jarre, I padri lontani

Marina Jarre è una grande scrittrice dimenticata, che, si spera, verrà riscoperta con la ripubblicazione delle sue opere da parte di Bompiani. I padri lontani sarà il primo, e uscirà nella primavera del 2020. È un libro sorprendente, un’opera di autofiction in anticipo di decenni (è uscito nel 1987) in cui l’autrice ripercorre la sua infanzia lettone, i suoi oscuri pensieri di bambina, le bizzarrie dei genitori, un’italiana valdese valente traduttrice dal russo e un ebreo lettone che morirà nella strage degli ebrei di Riga del 1941, che si separano negli anni Trenta. Marina, insieme alla sorella, arriverà nelle valli valdesi e vivrà un’adolescenza italiana, dopo aver parlato tedesco fino a quel momento, restando per sempre insicura sulla sua lingua, e vivrà la guerra e la Resistenza da spettatrice, poi il matrimonio, la maternità di quattro figli, la scrittura, la città di Torino e i suoi cambiamenti nel tempo, il rapporto durissimo con la madre. I padri lontani è un libro sul tempo e sulle patrie che mancano, scritto in una prosa stupenda e rarefatta, e costituisce un singolare pas-à-deux con la sua controparte, Ritorno in Lettonia, quando l’autrice ormai settantenne decide di tornare sulle tracce del padre rimosso e ricostruisce la storia di quegli eventi terribili che ha sempre scelto di ignorare, per sopravvivenza, forse: il tutto è un dittico magistrale sulla rimozione e le profondità del senso di colpa, che colloca Jarre, senza alcun dubbio, tra i grandi anticipatori e i grandissimi scrittori del secondo Novecento italiano.

Anna Maria Ortese, Il porto di Toledo

Anna Maria Ortese, Il porto di Toledo

Ortese è la signora della memoria come allucinazione poetica: basti pensare ai suoi ritratti aberranti, tenerissimi e indimenticabili di Il mare non bagna Napoli, ai suoi reportage-sogno del magnifico e troppo ignorato La lente scura, ai racconti di Angelici dolori (pochi hanno raccontato la povertà e l’alienazione nella grande città come lei, con la stessa potenza perforante e la stessa pietà priva di qualsiasi patetismo a buon mercato). Il porto di Toledo è, o dovrebbe essere, il suo romanzo autobiografico: la vita nella Napoli di prima della guerra, la morte del fratello marinaio, la madre, il padre, la casa, la scoperta della scrittura. Ma il tono è subito virato al fantastico, al miraggio, al mistico, e il reale, la realtà, viene a un certo punto rifiutata come “borbonica”: solo la visione ulteriore è il vero racconto del mondo, l’unica versione accettabile. Ci sono disparità enormi tra la prima e la seconda parte del Porto di Toledo, che Ortese spiega in Corpo celeste: la sua povertà l’aveva costretta ad alloggiare in stanze che subivano costantemente rumori, rumori di trapani e di lavori esterni, influenzando irrimediabilmente in negativo la fine del suo lavoro; ed è anche questo che fa la sua dimensione, la dimensione di un essere umano normale, fuori da qualsiasi torre, che deve piegare il suo genio immane alla disperazione del reale che entra comunque, e fa terra bruciata. Ma questo resta un libro di grandezza smisurata, con i suoi personaggi eterei e piantati nella terra, con il suo mistero, con le sue descrizioni prive di confini conosciuti, con la sua lingua che cerca vette quasi impossibili, quasi violente, e che piega e modella la memoria a misura di un incanto che è, infine, l’essenza stessa della vita.

marta barone

L’AUTRICE – Marta Barone (nella foto di Georgette Pavanati, ndr) è nata a Torino nel 1987. Traduttrice dall’inglese, ha scritto per ragazzi Miriam delle cose perdute (Rizzoli, 2008), I giardini degli altri (Rizzoli, 2011) e I 7 colori per 7 pittori (Mondadori, 2016).

Città sommersa (Bompiani) è il suo romanzo d’esordio nella letteratura per adulti. Un memoir su un padre quasi sconosciuto, e il suo passato da indagare, sul terrorismo e sulla Torino degli anni settanta. Protagonista la voce di una figlia, una giovane donna brusca, solitaria, appassionata di letteratura, che ha vissuto un legame felice nell’infanzia nonostante la separazione dei genitori, controverso nell’adolescenza, poi sempre più difficile e spinoso…

GLI APPUNTAMENTI – Mercoledì 15 gennaio, alle 19, al Circolo dei Lettori di Torino, l’autrice presenta il libro con Claudia Durastanti; l’appuntamento a Milano è per martedì 21 gennaio, alle 19, alla Libreria Verso, con Marta Barone e Giorgio Fontana;

 

Fotografia header: Marta Barone - foto di Georgette Pavanati

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