Anna Maria Ortese (Roma, 13 giugno 1914 – Rapallo, 9 marzo 1998) è considerata una delle più grandi voci letterarie del Novecento italiano, eppure, allo stesso tempo, non è molto conosciuta. Forse a causa della sua scrittura poco agile, o del complesso apparato simbolico e tematico dei suoi libri. E allora, il desiderio di scrivere un invito alla lettura di questa scrittrice deve per forza trovare un’altra strada, che non sia quella dell’elenco, o della sintesi schematica delle trame. Si è scelto quindi di osservare una sola opera, una delle più celebri, “Il mare non bagna Napoli”, perché in questa dimensione, a metà tra la visione allucinata e la fantasia infantile, Ortese costruisce tutta la sua narrativa… – L’approfondimento

Di solito il suo nome appare accanto a quello di un’altra grande scrittrice del Novecento italiano, Elsa Morante, eppure, a differenza di quest’ultima, è indubbiamente più difficile trovare informazioni su Anna Maria Ortese (Roma, 13 giugno 1914 – Rapallo, 9 marzo 1998). 

Un esempio superficiale, ma significativo: provate ad andare sulla pagina Wikipedia dell’autrice. Comparirà soltanto qualche dettaglio sulla sua biografia, stralci di citazioni di critici che ne osannano la scrittura e una breve descrizione della sua poetica. Inoltre – ed è forse questo il punto più importante – non esistono pagine di approfondimento per molte delle sue opere (praticamente tutte, eccetto Poveri e semplici, con cui la scrittrice vinse il Premio Strega nel 1967).

Ma al di là di Wikipedia – che è soltanto la punta di un iceberg molto più profondo -, è inevitabile constatare la magra quantità di riflessioni dedicate ad Anna Maria Ortese (con le dovute eccezioni, tra cui l’intervento di Angela Borghesi su Doppiozero e la lettura di Benedetta Sonqua Torchia su Terranullius, solo per citarne alcune disponibili online). Per non parlare delle scarse attenzioni rivolte dalla scuola, in cui è raro che la scrittrice trovi spazio nei programmi di studio – se non di striscio e se non per volontà di singoli docenti. 

La domanda sorge spontanea: perché ci si interessa così poco a un’autrice che viene annoverata come una delle più grandi penne del Novecento?

il mare non bagna Napoli anna Maria ortese

Prima di tutto, c’è da dire che anche in vita Ortese non ebbe molto successo di pubblico, probabilmente per la difficoltà dei suoi testi, che vennero poco compresi o mal interpretati. È il caso della raccolta Il mare non bagna Napoli, pubblicata nel 1953 nella collana I gettoni di Einaudi (diretta da Elio Vittorini), che fu vista dagli intellettuali della rivista Sud (dove, tra l’altro, collaborava la stessa Ortese) come un libro contro Napoli. La scrittrice, infatti, venne marchiata come una nemica e fu costretta ad abbandonare la città che amava e dov’era cresciuta, nella quale non avrebbe fatto mai più ritorno.

Certo, c’erano diverse personalità del mondo della cultura che ne apprezzavano il lavoro. Tra queste, Pietro Citati che la descrisse come una “zingara sognante”, mettendo in luce uno degli aspetti più caratteristici del suo lavoro: una scrittura difficile, complessa, sfuggente, che non si lascia acchiappare in citazioni o aforismi (altro motivo per cui, forse, la sua produzione è poco conosciuta nell’era dei social).

Come Massimo Bontempelli, Anna Maria Ortese rientra nella corrente del realismo magico italiano, che si coglie specialmente nel senso di stupore e meraviglia presente nelle sue opere. Sono sentimenti quasi infantili, quelli che racconta Ortese, sentimenti che si mescolano a un’atmosfera di malinconia, di tragedia inevitabile, di tristezza inconsolabile (ricordiamo che la vita di Anna Maria è segnata da lutti violenti, prima quello del fratello Manuele, marinaio morto al largo dell’isola di Martinica, poi quello del fratello Antonio, altro marinaio, morto lungo le coste dell’Albania, e in seguito quello dei due genitori).

I personaggi che costellano i suoi romanzi e i suoi racconti sono figure sfumate, che nascondono significati non semplici da decifrare. Pensiamo per esempio a Estrellita, la donna iguana di cui si innamora il protagonista de L’iguana, romanzo comparso nel 1965 e pubblicato da Vallecchi. Si tratta di una creatura mostruosa ma innocua, una “bestiola verdissima e alta quanto un bambino, dall’apparente aspetto di una lucertola gigante, ma vestita da donna”. O ancora alla tredicenne Damasa, protagonista de Il porto di Toledo, uno dei romanzi più estremi della scrittrice, resoconto visionario di un mondo dove “tutto ciò che si vede o accade è incantato o spaventoso”.

il porto di toledo Anna Maria ortese

Ma passare velocemente in rassegna questi personaggi non riuscirebbe mai a rendere la complessità delle opere di Ortese, che hanno un apparato simbolico e tematico densissimo, e che si definiscono in base al lento progredire della scrittura, attraverso il ritmo dei dialoghi e tramite la descrizione di atmosfere sognanti, vagamente accennate. E allora, il desiderio di scrivere un invito alla lettura di questa autrice deve per forza trovare un’altra strada, che non sia quella dell’elenco, o della sintesi schematica delle trame.

Nell’articolo già citato, Angela Borghesi avanza una proposta, “non certo l’unica, ma la più potente: il raro e saldo impegno etico che pervade le pagine dei suoi romanzi e dei suoi racconti, la fede che sorregge scelte tematiche e di campo coraggiose, anticipatrici e controcorrente almeno nell’Italia di quei decenni. Il destino degli esclusi è al centro del suo orizzonte narrativo, e tra questi gli ultimi degli ultimi, più disarmati dei poveri, più o quanto i bambini: gli animali. Ne è ultima testimonianza il recente volume di Adelphi Le Piccole Persone.

Un’altra proposta potrebbe essere quella di prendere un frammento della vasta produzione di Ortese e, in questo, cercare di individuare un tratto della sua poetica, un tratto che racconti la sua identità. Come abbiamo detto, le sue opere vengono ascritte al realismo magico, per tanto risultano ancora più forti le sue parole quando scrive: “Da molto, moltissimo tempo, io detestavo con tutte le mie forze, senza quasi saperlo, la cosiddetta realtà: il meccanismo delle cose che sorgono nel tempo, e dal tempo sono distrutte. Questa realtà era per me incomprensibile e allucinante”.

L’irritazione di Ortese nei confronti della realtà, la conduce da un lato verso scenari incantati e mostruosi (come l’isola di Ocaña de L’iguana), dall’altro verso uno stile sfocato, indefinito, concitato, che sembra voler a tutti costi fuggire dal mondo. Per parlare di una scrittura così singolare, non si poteva che guardare al particolare.

l'iguana Anna maria ortese

Si è scelto quindi di osservare una sola opera della scrittrice, una delle più celebri, Il mare non bagna Napoli (vincitrice nel 1953 del Premio Viareggio per la narrativa, ex aequo con le Novelle dal Ducato in fiamme di Gadda), e di quest’opera si è deciso di focalizzarsi soltanto su un racconto, il primo, Un paio di occhiali. 

La protagonista del testo si chiama Eugenia, è una bambina con la faccia da vecchia, i capelli arruffati, le unghia sporche e l’aria sempre triste. Vive a Napoli, insieme alla sua famiglia, in una casa marcia e umida, nel vicolo della Cupa a Santa Maria in Portico. 

Eugenia è cecata, non vede praticamente niente. La storia inizia nel momento in cui la piccola viene portata a fare una visita dall’oculista, che dichiara che le mancano circa 9 diottrie. Ha bisogno di un paio di occhiali e l’unica che può comprarglieli è la zia Nunzia, anche se questa spesa le verrà a costare “otto mila lire, vive vive”.

Il peso economico che la zia dovrà sostenere viene ricordato alla piccina di continuo: le viene fatto pesare di essere cecata (“in casa nostra tutti occhi buoni teniamo, questa è una sventura che ci è capitata”), le viene fatto pesare di aver fatto spendere tutti quei soldi alla sua famiglia (“tua zia se li poteva risparmiare. Ognuno nel suo rango… tutti ci dobbiamo limitare”), e per cosa, poi? L’ambiente in cui vive è così povero e così meschino che, forse, varrebbe la pena non conoscerlo (“figlia mia, il mondo è meglio vederlo che non vederlo”).

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Eppure a Eugenia non importa, è contenta lo stesso. È contenta perché finalmente potrà mettere a fuoco tutto quello che, adesso, si limita soltanto a percepire, a intuire. Sì perché, nonostante sia avvolta in una sorta di nebbia, Eugenia riesce comunque a sentire l’azzurro, le formiche che camminano sui cornicioni, i fiori esposti alle finestre, riesce a vedere la bellezza del “mondo fatto da Dio, col vento, il sole, e laggiù il mare pulito, grande…”. 

Eugenia è piccola, ma si è già rassegnata a una vita priva di gioie. Sa di essere brutta (del resto, se lo sente ripetere spesso), sa che non avrà un amore, sa che resterà povera e che forse, come le sue sorelle, sarà destinata a entrare in convento per sopravvivere alla miseria. Ma quando ha indossato gli occhiali dal dottore, per la prima volta, affacciandosi alla finestra, Eugenia ha avuto una rivelazione: “il mondo, fuori, era bello, bello assai”.

È questa la sua unica consolazione, la sua unica ragione di vita: al di là della sua casa piena di panni bagnati e sedie rotte, c’è una realtà che merita, se non di essere vissuta, almeno di essere guardata. 

Così aspetta, Eugenia, aspetta il giorno in cui gli occhiali saranno pronti. E intanto cammina per i vicoli con il cuore pieno di felicità, scorgendo, come se fosse un disegno annacquato, il bagliore caldo del sole, i carretti di verdura e pesce, le biciclette, “l’enorme festa della primavera”.  

E, a un certo punto, quel giorno arriva. La bambina attende il ritorno della madre dall’oculista e, quando riconosce la sua logora figura avvicinarsi, le si avventa contro. Scarta con quelle sue manine nere il pacchetto che contiene gli occhiali, li prende e li inforca. Ecco, adesso vede.

Da subito prova una sensazione strana, “una terribile impressione”. Qualcosa si rompe – e definitivamente -, qualcosa non va come la bambina sperava. Eugenia si dirige verso il portone, per guardare fuori, nel vicolo della Cupa: “Le gambe le tremavano, le girava la testa, e non provava più nessuna gioia. Con le labbra bianche voleva sorridere, ma quel sorriso si mutava in una smorfia ebete […]. Come un imbuto viscido il cortile, con la punta verso il cielo e i muri lebbrosi fitti di miserabili balconi; gli archi dei terranei, neri, coi lumi brillanti a cerchio intorno all’Addolorata; il selciato bianco di acqua saponata, le foglie di cavolo, i pezzi di carta, i rifiuti, e, in mezzo al cortile, quel gruppo di cristiani cenciosi e deformi, coi visi butterati dalla miseria e della rassegnazione, che la guardavano amorosamente. Cominciarono a torcersi, a confondersi, a ingigantire. Le venivano tutti addosso, gridando, nei due cerchietti stregati degli occhiali”. 

Appena indossa gli occhiali, Eugenia si sente male. Il perché non viene specificato ma, in ogni caso, il dubbio, la scrittrice, lo lascia aperto: forse il dottore ha sbagliato a graduare gli occhiali, quindi quel senso di nausea che Eugenia prova è dovuto semplicemente al fatto di aver indossato delle lenti non adatte a lei. Forse è per questo, come dice Mariuccia, che “le hanno toccato lo stomaco”. 

Ma il significato del racconto è molto più evidente di qualsiasi logica spiegazione: Eugenia vuole vomitare davanti a quel mondo, perché quel mondo le causa disgusto, è spaesata perché quello che vede davanti ai suoi occhi è un teatro distorto, miserabile e infelice. 

E allora, tanto meglio togliere quegli occhiali, rifugiarsi in una realtà che non ha nulla di reale. Una realtà che non è neppure l’ombra o il riflesso di quello che è davvero, ma soltanto un sogno di bambina. Ed è proprio in questa dimensione, a metà tra la visione allucinata e la fantasia infantile, che Anna Maria Ortese costruisce tutta la sua narrativa. 

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