“Le Eroine sono le donne che riescono a liberarsi dai condizionamenti patriarcali e sbocciare a se stesse. Nei loro termini. Non c’è una sola maniera di essere ‘eroiche’, perché in realtà definiamo il Viaggio ‘eroico’ nella misura in cui consta di numerosi ostacoli da superare. Per le donne quegli ostacoli sono differenti rispetto agli uomini. È questione di cultura e privilegio, non di biologia”. In occasione dell’uscita del saggio “Eroine”, ilLibraio.it ha intervistato l’autrice, Marina Pierri, per discutere di femminismo intersezionale, di rappresentazione, di utilizzo dei social, di serie tv e degli scenari della serialità italiana

Le serie tv siamo abituati a divorarle, a bingewatcharle, a consumarle tutte in una notte. Scorpacciate di audiovisivo che si succedono ad altre scorpacciate, come una vera e propria bulimia, per cui appena terminata una serie, siamo già pronti a partire con una nuova.

Viviamo in un vero e proprio bombardamento, che ha reso la scelta sul mercato vasta e varia: basta navigare per qualche minuto su una qualsiasi piattaforma di streaming per farsene un’idea. Eppure, in questo mondo in cui tutto sembra destinato a essere fagocitato velocemente, forse è necessario prendersi un po’ di tempo, e soffermarsi a riflettere di più su quello che stiamo guardando.

È quello che fa Marina Pierri, giornalista e critica televisiva, nel suo primo saggio, Eroine (tlon), in cui analizza il tema della rappresentazione delle donne nella serialità televisiva. Con uno sguardo consapevole ed estremamente rivolto alla contemporaneità e alle questioni sociali, l’autrice – laureata in semiotica e co-fondatrice e direttrice artistica di FeST – Il Festival delle Serie Tv di Milano – prende le mosse da uno dei testi di riferimento della scrittura, Il viaggio dell’eroe di Joseph Campbell, ribaltandolo e puntando i riflettori su un altro percorso di formazione poco esplorato: quello dell’eroina.

Cross over che unisce alcune delle protagoniste seriali più amate e brillanti degli ultimi anni, da Fleabag a Mrs. Maisel, passando per Sana di Skam, Eleven di Stranger Things, Ruth di Glow e Nadia di Russian Doll (il libro ne conta in tutto ventidue), Eroine è un testo difficilmente incancellabile: a metà tra il saggio divulgativo d’attualità, il manuale drammaturgico e la riflessione filosofica. Quel che è certo è che la lettura scivola via senza freni (quasi un bingreading, appunto), e ogni pagina si presenta ricca di spunti, informazioni e argomenti mai scontati, presentati con precisione ed efficacia comunicativa.

ilLibraio.it ha intervistato Marina Pierri che, tra le altre cose, insegna allo IED e ha partecipato alle antologie Tutte le ragazze avanti! (ADD) e The Game Unplugged (Einaudi).

Eroine_Cover

Nel suo libro lei accosta femminismo intersezionale e serie tv. Come è nata l’esigenza di parlare di audiovisivo attraverso questa lente? 
“La mia tesi è che la serialità televisiva costituisca, in questo momento, terreno fertile per entrare in contatto con una decente varietà di vissuti femminili. Le donne non sono una minoranza, parola che – peraltro – non amo; ma vengono considerate tale perché il punto di vista maschile è confuso con quello neutro. Siamo molto lontane e lontani dalla parità. Mi sono abituata in questi anni – e ora sempre di più facendo lo slalom tra lo spauracchio della cancel culture e il percepito, quanto fantomatico, mostro del politically correct – a ragionare con i numeri e le statistiche alla mano. Credo che un approccio basato sui dati non possa che far bene all’intero dibattito attorno all’importanza della rappresentazione. L’invisibilità e la visibilità sono strumenti molto potenti di controllo. Quello che vediamo o non vediamo sugli schermi è rilevante e significativo”. 

Sembra che le serie tv si stiano aprendo sempre di più a forme di narrazione inclusive e rappresentative – penso per esempio Dear White People, uscita ormai nel 2014, o Pose, o ancora alla recente I May Destroy You. In che momento e perché l’industria delle serie – che lei conosce bene – ha avuto una svolta da questo punto di vista?
“Oggi vanno in onda, diventano o sono disponibili oltre cinquecento serie tv ogni anno. Se si moltiplica lo spazio sugli scaffali digitali – ed è quello che sta accadendo, con la corsa allo streaming che modifica di conseguenza tutto il resto dello scenario, anche quello della tv lineare – le barriere all’ingresso sono suscettibili di abbassarsi. E, data la crescente necessità di diversificazione legata alla quantità, emerge un’opportunità di ascoltare voci tradizionalmente marginalizzate. Incluse quelle di autrici con esperienze, identità intersezionali e background molto differenti, messe finalmente nelle condizioni di tenere in mano le redini della propria narrativa da un sistema al quale è complicato accedere. Non mi riferisco solo alle donne bianche, abili e con corpi conformi, ma anche a stelle del firmamento televisivo come Michaela Coel che citi (purtroppo I May Destroy You è arrivata quando avevo chiuso il libro, altrimenti avrebbe avuto un posto d’onore), Tanya Saracho di Vida o Janet Mock di Pose. Come dico spesso, non credo nella ‘bontà’ delle corporation dell’intrattenimento. Alcune sono più guidate dal faro dell’etica di altre, ma quello che muove il mercato sono gli affari, è il business. Se inizia a esistere uno spazio per chi non è un uomo bianco, abile ed eterosessuale è perché si comprende sempre più che le nicchie hanno un potere d’acquisto. È un processo. Il cambiamento è molto lento”. 

A proposito di prodotti culturali e rappresentazione: ovviamente non esiste solo chi questi prodotti li produce, ma anche chi ne fruisce. Come si fa a diventare spettatori consapevoli, a esigere “l’invisibile”, cioè a non accontentarsi, a non cadere “nel pericolo di un’unica storia”?
“Guardare una serie tv, e lasciarsene rapire, è apparentemente molto semplice ma cela pratiche complesse. La serialità televisiva sperimenta con le modalità di coinvolgimento del pubblico (si pensi a Doctor Who, a Twin Peaks e Lost per fare esempi nel tempo). In Eroine suggerisco che, più che spettatrici e spettatori, siamo partecipanti: giochiamo con quello che vediamo nella misura in cui lo facciamo nostro, lo elaboriamo e riproduciamo sui social o nei discorsi; le parole possono essere azioni. Solo, credo che l’immedesimazione non sia l’unica strada per apprezzare un prodotto. Se ricerco l’immedesimazione a tutti i costi farò fatica a identificarmi, per esempio, con Sana Allagui. Sono stata cresciuta cattolica, non indosso il velo e non sono più adolescente. Osservandola, però, posso provare a comprendere il suo vissuto. A me, infatti, non interessa somigliare ai personaggi che trovo sul piccolo schermo; interessa comprenderli e ascoltarli. Così, nel libro, discuto di ascolto attivo come di possibilità di approccio a uno show. Se ascolto posso abbassare la manopola dell’emotività e non esigere risposte da quello che guardo, ma abbandonarmi a ricevere intuizioni ed esperienze dalle autrici, dagli autori, dai personaggi, dalle storie. Ricredermi qualora avessi pregiudizi, e normalizzare la mia opinione sulla base di nuove informazioni. Non credo nella necessità di una normatività quando si tratta di selezionare i propri show: ce ne sono tantissimi, ognuna e ognuno – sempre più – costruisce il suo palinsesto personale. Però credo sia importante essere curiose e curiosi, preferire almeno qualche show che tratti (bene) tematiche lontane dalla propria identità intersezionale”. 

Dopo show come Skam 4, Luna Nera e anche Summertime, come pensa che la serialità italiana stia lavorando in una direzione più inclusiva?
“Io credo di sì; il problema, tuttavia, non si risolve con le eccezioni alla regola. Sono importanti, ma non sufficienti. In Italia non c’è la stessa cultura seriale che esiste nel mondo anglosassone. In relazione a questo aspetto mercato, industria e critica non sono sovrapponibili a quelli di altri paesi, e temo che farlo sia una generalizzazione. Ogni contesto ha le sue specificità. Sono sicura che vedremo un cambiamento più cospicuo negli anni, perché i segnali di apertura ci sono. Vanno probabilmente incoraggiati, a ogni livello, a partire dalla consapevolizzazione delle persone che ‘decidono’ nelle sezioni alte della piramide. Nel mio lavoro di direttrice artistica con Il Festival delle Serie Tv, il cui approccio anche sociale alla serialità televisiva non è un mistero, ho avuto l’occasione di incontrare già molte e molti professioniste/i che hanno a cuore la rappresentazione come strumento di costruzione di un nuovo atteggiamento collettivo in relazione a temi che possono essere percepiti come scomodi o distanti”. 

Qual è il suo personaggio di Eroine preferito, e perché? 
“Ho un debole per i personaggi scritti con ‘la penna dell’archetipo’, come dico spesso. Quindi la mia risposta è la seguente: Angela Abar, perché è costruita ad hoc per restituire freschezza e potere allo stereotipo della Strong Black Woman, e OA perché è disegnata per incarnare l’archetipo numero 10, la Maga. Del resto sia Damon Lindelof, autore di Watchmen, che Brit Marling, co-autrice di The OA ampiamente citata nel libro, sono anche qualcosa di simile ad autrici/autori-filosofe/i”. 

Quando l’ha scritto pensava a un lettore ideale? 
“Prima di tutto a una lettrice. Eroine, sotto la scorza, è un libro piuttosto personale: per comprendere il Viaggio dell’Eroina, come è normale, ho dovuto ragionare anche sulla base della mia esperienza personale. Io sono laureata in semiotica, e le strutture soggiacenti alle narrative televisive mi appassionano moltissimo. Penso che qualcuno sorriderebbe se guardasse la quantità di schemi che ho costruito per incrociare Eroina ed Eroe, e quante volte li ho cambiati. Sono tornata indietro e indietro, ho ripensato e messo in dubbio la maggior parte delle cose che avevo dato per scontate in prima battuta. Quindi, per rispondere alla domanda, credo che la persona ideale che ho immaginato non si accontenti di tassonomie e semplicismi, sia in cerca di una interpretazione utile, una cassetta degli attrezzi. È stata mia cura costruirla e riempirla di strumenti – spero – funzionali”. 

Lei utilizza – molto bene – i social come strumento di divulgazione, di informazione e di attivismo. Cosa ne pensa di questi canali, delle loro potenzialità, del modo in cui vengono fruiti e utilizzati?
“Trovo importantissimo coltivare il proprio feed con la cura che si dedicherebbe a un giardino nel quale si passa molto tempo. Instagram, il social che a oggi uso, e in realtà ormai il solo, offre una chance di entrare in contatto con le voci immediate (cioè letteralmente non mediate) di persone di tutto il mondo con opinioni, identità di genere, orientamenti sessuali, etnie, corpi e vite molto diverse, condite spesso da affermazioni di forza o vulnerabilità che sono fonte di perenne ispirazione per me. Non voglio essere giudicante nei confronti di chi fa un uso diverso, magari più svagato, della piattaforma ma grazie alla comunità legata al femminismo intersezionale e antirazzista su Instagram la mia maniera di pensare alla realtà e a me stessa è cambiata moltissimo. E non ho finito. Imparo ogni giorno, ascolto, leggo, a volte sbaglio, mi scuso, cerco di fare meglio. Lo devo a una quantità talmente grande di persone che nominandone solo alcune sarei fare un torto a chi manca”. 

“Eroine” è una definizione che prende le mosse dallo schema del viaggio dell’eroe proposto da Campbell, Vogler, Pearson, quindi non propone una visione della donna “eroica” come comunemente inteso, nel senso di “forza”, “altruismo”, “coraggio”.  Chi sono dunque le Eroine? Quali caratteristiche hanno? 
“Il Viaggio dell’Eroina è stato molto meno indagato (dai?) del Viaggio dell’Eroe, ma credo che sia già ampiamente utilizzato. La mia prospettiva è più legata all’interiorità dei personaggi che alla realtà empirica, ma credo che le Eroine siano le donne che riescono a liberarsi dai condizionamenti patriarcali e sbocciare a se stesse. Nei loro termini. Non c’è una sola maniera di essere ‘eroiche’, perché in realtà definiamo il Viaggio ‘eroico’ nella misura in cui consta di numerosi ostacoli da superare. Per le donne quegli ostacoli sono differenti rispetto agli uomini. È questione di cultura e privilegio, non di biologia”. 

Cosa ne pensa dell’espressione, ora molto popolare, “personaggi femminili forti”?
“La trovo piuttosto banale, se non controproducente. Cosa si intende per ‘forti’, e rispetto a chi o cosa? Sospetto che si parli di ‘personaggi femminili forti’ come di un’anomalia, perché al genere femminile sono tipicamente ascritte caratteristiche di ‘debolezza’ (ancora, non mi è chiaro in che senso) che sono attribuite socialmente, non dispensate dalla natura. Inoltre, quando si parla di ‘forza femminile’ spesso se ne parla in termini paternalisti, un po’ pietisti, come dire ‘quanto sei brava, già hai tante cose da fare, insomma sei donna e sappiamo tutti quanto sbattimento implichi essere donna, perché le donne sono spontaneamente multitasker, e tu trovi persino il tempo per essere forte! Pazzesco’. Domanda: quando c’è bisogno di specificare che un personaggio maschile è ‘forte’ per renderlo dignitoso, innovativo, o di rottura?”.

Facciamo un breve spin off di Eroine? Ci sono altri personaggi – oltre ai 22 analizzati    che avrebbe voluto inserire nel libro e che meritano di essere conosciuti?
“Selezionare le ventidue Eroine di Eroine è stata la parte più complessa del lavoro, e continuo a non riuscire a sbarazzarmi della sensazione di aver tralasciato personaggi essenziali. Eppure è proprio questo il libro che io ho scritto, nella sua forma definitiva ma non esaustiva. Se lo scrivesse qualcuna o qualcun altro, allo stesso modo, probabilmente avrebbe scelto alcuni personaggi e non altri che figurano nelle mie pagine. Per fortuna la progressione archetipica è uno strumento di conoscenza applicabile a una vastità di persone immaginarie quindi, dopo la lettura, può cominciare per ciascuna e ciascuno un’analisi secondo i suoi desideri. Venendo alla domanda, solo nell’ultima settimana ho visto almeno tre show che avrebbero meritato di apparire nel volume; ma non è possibile, non è infinito. Non smetterò di analizzare personaggi femminili – secondo lo schema di Eroine, e non solo – ovunque potrò. Anzi, forse ho appena iniziato”.

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