“Non è sempre facile seguire il filo di questa narrazione. Non a caso la stessa giuria che ha premiato il libro per la sua originalità ammette quanto sia difficile accostarvisi e una critica del ‘Guardian’ lo ha definito ‘una lettura macina-cervello’ per l’alto livello di sperimentalismo linguistico che caratterizza lo stile dell’autrice. […] Eppure sono abbastanza sicura che l’ostilità del testo possa essere superata anche grazie a un ritmo poderoso che viene conservato nella traduzione, che fa assumere alle pagine una musicalità affine a quella di altri scrittori irlandesi ed è godibile soprattutto all’ascolto”. Su ilLibraio.it l’approfondimento di Giusi Marchetta dedicato al romanzo vincitore del Man Booker Prize 2018: “Milkman” di Anna Burns

Un luogo di “depravazione, decadenza, demoralizzazione, diffusione di pessimismo, oltraggio alla proprietà e relazioni illecite immorali”: così la protagonista di Milkman, vincitore del Man Booker prize e pubblicato in Italia da Keller (con la traduzione di Elvira Grassi), descrive un sobborgo della Belfast degli anni Settanta. È un periodo caldo: le strade sono attraversate da una guerra che non fa sconti da nessuna delle due parti. Corpi di uomini e animali vengono fatti a pezzi dalle bombe dei rivoltosi o dai fucili dei combattenti. E poi c’è la stampa che con il suo apparato onnipresente di schermi e microfoni racconta un posto in cui si “beve, si combatte e si insorge” con la naturalezza di chi le ritiene azioni “comuni, consuete, perfino necessarie e difficilmente venivano considerate aberrazioni mentali”. 

Si tratta di un piccolo pezzo di mondo, eppure, la scrittrice, Anna Burns (nella foto di Eleni Stefanou, ndr), ne ha fatto una lente di ingrandimento con cui osservare una ferocia che si ripete sempre uguale a se stessa, in qualsiasi luogo e qualsiasi tempo. Siamo a Belfast, sono gli anni Settanta, eppure non si direbbe. 

Anna Burns

Non è sempre facile seguire il filo di questa narrazione. Non a caso la stessa giuria che ha premiato il libro per la sua originalità ammette quanto sia difficile accostarvisi e una critica del Guardian lo ha definito una lettura macina-cervello per l’alto livello di sperimentalismo linguistico che caratterizza lo stile dell’autrice. Il perché è apparentemente facile da spiegare: descrivendo le turbinose vite di personaggi che vivono in costante stato di sorveglianza da parte di un vero e proprio esercito occupante, Anna Burns toglie loro finanche i nomi, a partire dalla protagonista che viene definita soltanto “la sorella di mezzo” e dal misterioso “milkman” che la corteggia in modo inquietante fin dalle prime pagine del libro. Un espediente che rafforza la sensazione di leggere un romanzo di ambientazione distopica in cui ciascuno coincide con la propria funzione sociale (la madre, o meglio, le madri, cognato, fratello numero tre ecc.). 

La decisione di rappresentare un universo privo di definizioni chiare appare in certi momenti un gioco godibile anche se complesso, eppure non sembra fine a se stesso. Soprattutto nei punti in cui la narrazione non va avanti ma cede il passo a riflessioni della protagonista o alle descrizioni che fa della società che la circonda, è possibile avvertire l’ambizione di costruire agli occhi del lettore un quadro nuovo di quegli anni, uno scenario interamente basato su un linguaggio inventato, libero. 

In questo senso si parla di “rinnegatori” senza mai indicarne l’appartenenza politica. O si declina una guerra portata avanti a colpi di attentati con un insieme di slogan che definiscono genericamente “il nostro lato della strada” o “il nostro lato dell’acqua”, o che ribadiscono con orgoglio ma anche con una certa ovvia stanchezza che “la loro bandiera non è la nostra bandiera”. 

Questa prosa che non si serve di nomi o di fazioni politiche ma che neanche li ignora, si arricchisce in alcuni capitoli di pagine e situazioni suggestive, che questa scelta stilistica contribuisce a raccontare in modo vivo, quasi come se nel flusso di una narrazione omogenea l’autrice inserisse delle scene fatte per rimanere maggiormente impresse nel lettore. 

È il caso ad esempio della strage di cani degli abitanti del quartiere, che li porta una triste mattina tutti per strada ad assistere alla carneficina dei loro animali domestici e ad accogliere in silenzio la brutalità con cui sono stati colpiti. Ai bambini non resta che il pianto con ogni medaglietta associata al cadavere di una cane che hanno voluto e amato. Lo sguardo dell’autrice però è rivolto alla sua protagonista e al suo dramma personale. 

“Quanto a pa’, ricordo l’impazienza di fratello numero tre e la mia impazienza di sapere dove fosse, l’intensità con cui lo imploravamo che stesse anche lui lì, un uomo tra quegli uomini, che facesse cosa normale da uomini come avrebbe fatto anni dopo quando insieme agli altri aveva cercato la testa del fratello di Qualcuno MacQualcuno. Ma forse il giorno dei cani era stato un brutto giorno per lui, uno di quei giorni da letto, un giorno d’ospedale, un giorno da Olocausto”. 

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Questa tendenza alla riflessione dolorosa che accompagna la protagonista nel corso del romanzo (soprattutto quando l’interesse di Milkman per la ragazza si fa più acceso e l’uomo cerca di occupare uno spazio preciso nella vita di lei) in più punti ricorda l’andamento dolente di un Infinite Jest incentrato non sul concetto dipendenza, ma sul racconto di una forma di resistenza all’accerchiamento, sulla descrizione di una società che elegge la violenza a sistema in senso collettivo (nel conflitto con gli occupanti) e nella vita personale. 

In virtù di questo sono abbastanza sicura che l’ostilità del testo possa essere superata anche grazie a un ritmo poderoso che viene conservato nella traduzione di Elvira Grassi, che fa assumere alle pagine una musicalità affine a quella di altri scrittori irlandesi ed è godibile soprattutto all’ascolto. Soprattutto, però, mi sembra che emerga nel corso della lettura la necessità dell’autrice di sperimentare attraverso la scrittura per rendere la complessità di un passato pronto per essere guardato a distanza senza però rischiare di perderne le sfumature. In questo modo, forse, grazie allo spiazzamento che la scrittrice provoca nel lettore togliendogli ogni punto di riferimento, si realizza un romanzo in grado di scavare non solo nelle pieghe della storia che racconta, ma anche del presente di chi legge. Una storia, insomma, incredibile, scritta in modo da essere creduta. 

“Questo era odio. Molto intenso il grande odio degli anni Settanta. Uno doveva anche mettere da parte la fuorviante e farraginosa inadeguatezza dei problemi politici e tutte le spiegazioni razionali e le conclusioni ponderate sui problemi politici per poter valutare in modo adeguato il peso di questo odio. Come quel tizio, una persona normalissima della tua opposto della strada, che una volta in tv aveva detto, senza troppi giri di parole, perché voleva uccidere ogni singola persona della mia religione della mia zona per rappresaglia, dopo che un rinnegatore dello stato della mia zona aveva attraversato la strada e fatto esplodere una bomba ammazzando un sacco di gente della sua religione della sua zona, ‘sono incredibili i sentimenti che abbiamo dentro’. E aveva ragione. È incredibile, a prescindere dal fatto che sia tu o no alla fine a premere il grilletto”.

 

L’AUTRICE – Giusi Marchetta, nata a Milano nel 1982, è cresciuta a Caserta, poi si è trasferita a Napoli. Oggi vive a Torino dove è insegnante. Per Terre di Mezzo ha pubblicato le raccolte di racconti Dai un bacio a chi vuoi tu (2008), con la quale ha vinto il Premio Calvino, e Napoli ore 11 (2010). Il suo primo romanzo, L’iguana non vuole, è stato pubblicato nel 2011 da Rizzoli. Nel 2015 è uscito, per Einaudi, Lettori si cresce. Il suo ultimo romanzo è Dove sei stata, Rizzoli. Per Add ha curato il libro collettivo Tutte le ragazze avanti!

Qui tutti gli articoli scritti da Giusi Marchetta per ilLibraio.it.

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