I protagonisti di “Melancolia”, raccolta di racconti di Mircea Cărtărescu, inventano per sé una realtà, si direbbe “la” realtà, generano un mondo, grazie al potere affabulatorio della parola…

Il mondo del sogno, dell’irrealtà, della sur-realtà è quello che fin da sempre abita la narrativa di Mircea Cărtărescu, e non fa eccezione la sua ultima raccolta di racconti, Melancolia, tradotta da Bruno Mazzoni e pubblicata da La Nave di Teseo. Si tratta di cinque racconti (due brevi che fanno de epilogo e prologo, e tre storie lunghe al centro) che programmaticamente vivono in un mondo totalmente altro, quasi in un gioco di ribaltamento delle prospettive, al punto tale da considerare come irreale il mondo materiale: “e a un tratto li vide diversamente, come non avrebbe creduto di vederli mai, così come non erano realmente: pezzi di mondo, irreali, come pure il mondo, fatti di stoffa esanime, plastica esanime, occhi di vetro esanimi, paglia esanime, fili di spago esanime anch’esso” (così appaiono i giocattoli, a un certo punto, al protagonista di Le volpi, perché per quelli che vivono nel mondo del sogno, il mondo reale è il luogo più inverosimile).

Non a caso tutti i protagonisti di questi racconti inventano per sé una realtà, si direbbe la realtà, generano un mondo, grazie al potere affabulatorio della parola: “ho inventato così tanti giochi da quando mi trovo in prigione, che potrei tranquillamente dire che ho inventato il mondo”, dichiara il narratore de La prigione – situazione esplicitamente kafkiana, di un uomo incarcerato dopo un processo di cui non ha più ricordo.

melancolia

E, infatti, c’è una certa tendenza, in queste storie, al racconto di secondo grado, quello orale delle fiabe che raccontano le madri ai bambini e alle bambine (“Vivevano una volta, in una città lontana, in cui le case parevano lividi sulla pelle slava del cielo, due fratellini”); o quello del “facciamo finta che”, del gioco che trasforma la realtà, e che pure comporta dei rischi: il sogno può facilmente trasformarsi in incubo, come avviene ne Le volpi, in cui il setting del gioco si fa vivo e reale sulla pelle della piccola Isabel (forse perché il gioco è reale, sembra dirci Cărtărescu). E del sogno questi racconti mantengono più la logica che l’atmosfera, perché è al contempo schermo e anelito. Non a caso la struttura narrativa, più che essere un’allegoria sulla melanconia del titolo, sembra organizzarsi intorno ai tre principi strutturanti del sogno individuati da Freud: la condensazione, lo spostamento, la simbolizzazione. Tutto è funzionale, in questi cinque racconti, alla messa in scena di situazioni di solitudine, di dolore, di trauma, ambientate in un mondo dell’infanzia continuamente straniato (a partire dalla percezione del sé).

È, questo, un mondo della stasi, quasi da delirio di immobilità, in cui tutto sembra uguale, e anche il movimento è bloccato, come gli “immobili zampilli”, il tempo stesso si congela al momento dell’abbandono che lascia ogni cosa “muta e paralizzata”, o si confonde e non è più possibile tracciarne una linea con certezza (“erano passati da allora settimane o mesi o anni”).

Stasi e solitudine trovano una loro manifestazione visiva in tre immagini che scandiscono il libro in maniera trasversale, ritornando quasi ossessivamente a costruire dei ponti fra i vari racconti: la neve (che quasi si fa, talvolta, figura del fato: “come nevica la sorte?”), lo specchio e la finestra. Si tratta di tre dispositivi che servono a ricalcare una forte antitesi (che pure trascolora e confonde il punto di demarcazione) fra interno/esterno, sogno/mondo, realtà/irrealtà, trauma/schermo. Basti pensare allo specchio, e al suo corrispettivo nella figura del doppio, come nel primo racconto, La danza, in cui il protagonista combatte contro la propria immagine riflessa, senza però riconoscersi, e allo stesso modo il bambino di I ponti indugia davanti allo specchio, in una situazione che sembra il ribaltamento dello stadio lacaniano dello specchio, perché non si riconosce: “si guardava negli occhi per provare a ricordarsi almeno qualche dettaglio della sua vita interiore, se non altro come si chiamasse e quanti anni avesse”.

Ma ancora più ossessiva sembra essere l’immagine della finestra, dispositivo visuale per eccellenza della modernità, e che qui funziona contemporaneamente da schermo e punto di contatto con l’esterno: attraverso il medium trasparente (e insieme distorcente) del vetro è possibile guardare all’esterno, guardare un mondo la cui visione soverchia la capacità di comprensione, e allo stesso tempo grazie alla finestra si modifica lo spazio della stanza (luogo simbolico fondamentale di questo libro): “a volte il bambino restava ore intere a vedere l’influsso di questi mutamenti di luce sul disegno dell’incerata sul tavolo in cucina”. È, questa, quasi una descrizione perfetta di Melancolia: stiamo a vedere cosa ne è del mondo quando il suo disegno è modificato dalla luce.

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