Che cosa cerchiamo quando leggiamo un racconto di Murakami? E che cosa possiamo davvero trovare a legare una vicenda alla precedente e alla successiva? Forse non una risposta a tutte le nostre domande, ma certamente simboli, riflessioni ed episodi che sono il negativo di ciò che avrebbero potuto diventare. In occasione dell’uscita di “Prima persona singolare”, raccolta firmata dal celebre scrittore giapponese, un approfondimento sulla natura delle sue storie brevi

“Domanda: nei dialoghi che hanno luogo fra questi due uomini, nei loro due incontri, quali elementi delle loro vite vengono simbolicamente espressi?”.

Se lo chiede Haruki Murakami in una parentesi che fa quasi da epilogo a With the Beatles, racconto contenuto nella raccolta fresca di stampa Prima persona singolare (Einaudi, traduzione di Antonietta Pastore).

La questione è così affascinante, e allo stesso tempo così slegata dal resto della storia in cui è inserita, che potremmo estrapolarla dalla sua collocazione e porcela in senso lato, rispetto alla nostra esperienza con la narrativa breve.

Prima persona singolare, Haruki Murakami

Si tratta di un dubbio particolarmente calzante, fra l’altro, se riferito ai racconti del celebre scrittore giapponese. Nelgli ultimi otto con cui Murakami si è cimentato, infatti, il filo conduttore sembra la prima persona singolare da cui vengono narrati, come esplicita il titolo. La verità, però, è che, dei suoi 59 racconti editi nella nostra lingua, ben 48 sono scritti in prima persona singolare e soltanto 9 in terza.

Né, come capita spesso nell’universo letterario di Murakami, veniamo catapultati in atmosfere sempre nuove di zecca – il caso più eclatante si verifica con Confessione di una scimmia di Shinagawa, che ha per protagonista lo stesso curioso primate della storia La scimmia di Shinagawa, contenuta nella raccolta I salici ciechi e la donna addormentata.

Ci deve pur essere, quindi, qualcosa di più. Una traccia sottile, eppure solida, rintracciabile nelle storie di questo autore. Che cosa cerchiamo, insomma, quando leggiamo un racconto di Murakami? E che cosa possiamo davvero trovare, al di là delle nostre aspettative, a legare fra loro vicende sempre alle porte dell’onirico?

La risposta al primo quesito sembrerebbe, in modo solo apparentemente paradossale, contenuta nella citazione con cui abbiamo esordito: forse cerchiamo frammenti di vita espressi attraverso un simbolo, da individuare in controluce in un dialogo o in un incontro fra due personaggi. E tuttavia, al netto della nostra ricerca, è probabile che a fine lettura non riusciamo a trovare quanto ci aspettavamo.

La scrittura di Murakami, dopotutto, non procede per soddisfazioni o per ricompense.

Il suo passo a metà fra la favola e il memoir sembra svilupparsi invece per sottrazioni e per balzi, costringendoci a confrontarci con incertezze concentriche e precisazioni ossessive.

Nel caso specifico, leitmotiv ricorrenti sono la musica (ora sinfonica e ora jazz, con incursioni anglofone di ogni sorta), il legame fra eros e thanatos e poi lo sport, accolti in narrazioni nelle quali non di rado fanno incursione brevi componimenti in versi o flashback della prima età adulta, qui considerata quasi alla stregua di un secondo battesimo.

In altre parole, si tratta di storie che nascono dallo spunto contenuto in un’altra storia, e in grado di suggerirci risposte a domande su cui non avevamo riflettuto granché – proprio come accade con certi oggetti appoggiati sui mobili di casa nostra, dei quali con il passare del tempo smettiamo di notare le bizzarrie.

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Sui nostri dilemmi iniziali, invece, Murakami non si pronuncia. Quel che c’è di più presente, tanto nei suoi racconti dal gusto più occidentale quanto in quelli con una maggiore componente di misticismo nipponico, rimangono le assenze e i non detti.

Anzi, in Prima persona singolare si verifica un fenomeno ancora più estremo (e proprio per questo extra-ordinario): ogni storia è il negativo di ciò che avrebbe potuto essere se… Se un concerto fosse stato eseguito nel luogo indicato da un biglietto di invito, se in un bar una donna non si fosse seduta accanto a un uomo con la cravatta che leggeva un romanzo giallo, se una scimmia parlante non avesse rubato il nome alla redattrice di una rivista di viaggi.

O ancora: se un’amica avesse continuato ad ascoltare le più svariate esecuzioni di Carnaval di Schumann, anziché finire al telegiornale col marito per tutt’altro motivo, se in un negozio di New York si fosse acquistato al momento giusto un cd di fatto inesistente, se tempo addietro si fosse deciso di fermare una ragazza che camminava a passo svelto in un corridoio della scuola, o se più gente comprasse una birra scura quando va alle partite di baseball.

Non ci è dato sapere niente di tutto ciò, perché questa versione dei racconti non è arrivata fino a noi. Murakami ce ne regala di volta in volta un universo alternativo, costellato di fatti che non accadono, di frasi che non si dicono, di manoscritti rigorosamente spediti in forma anonima. E, fra perdite di memoria e attese destinate a rimanere in sospeso, sembra ricordarci che non sempre la “crema della vita” consiste nello scovare una risposta mentre leggiamo.

A volte è molto più stimolante riconoscere che il nostro cervello “è fatto per riflettere su problemi difficili”, anche se non veniamo a capo di tutte le nostre domande dopo essere arrivati in fondo a una storia – voi, per esempio, avete poi capito come fa “un cerchio con tanti, addirittura infiniti, centri a esistere in quanto cerchio”?

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