L’infanzia sotto le bombe e a giocare con i gattini in solitudine, il rapporto con il padre e quello con la nostalgia (“Alla mia età è dannosa, ti fa solo morire di dolore”). Le canzoni e gli incontri di una vita da matti, i grandi amori, da Giorgio Strehler a Gino Paoli. L’incontro con la morte, davanti alla quale, dice, “mi toglierò le scarpe e farò un sorriso da furbetta. Il funerale? Ho già organizzato tutto per non dare impicci ai parenti…”. Intervista a tutto campo a Ornella Vanoni, che ha raccontato la sua vita nel libro “Vincente o perdente”, scritto con Pacifico: “La lettura? Ai romanzi preferisco le poesie, in ogni riga può esserci una sorpresa. Apprezzo Patrizia Valduga, Wisława Szymborska e Vivian Lamarque”

Confesso subito a Ornella Vanoni che sono emozionato per quest’intervista.

Pausa.

“Ah sì? Ma lo sai che mi viene da ridere (e inizia a farlo divertita, ndr). Ormai mi fa ridere tutto. Questa è l’età dello stupore, del sorriso, della leggerezza”.

Per anni abbiamo conosciuto, e amato, “la Vanoni”. Ora è la volta di “Ornella” e basta. Vincente o perdente. Senza punto interrogativo “perché non l’ho voluto io”, dice mentre indica il libro (magnificamente) scritto con Pacifico per La Nave di Teseo. È un memoir, un autoritratto, un repertorio di aneddoti e personaggi: Giorgio Strehler, il suo mentore e grande amore, che si chiude in bagno perché ha paura del responso del pubblico; che regala deodoranti a Natale perché, presi dal lavoro, macchinisti e operai sudano parecchio; che entra trionfalmente, sempre a Natale, a casa Vanoni, con un albero sottobraccio e mezzo teatro. Lucio Dalla di cui, scrive, “non guardavo alla statura, ai peli… stupidaggini. Io vedevo energia, calore, talento”; Hugo Pratt: “Si può mancarsi, sfiorarsi per tutta la vita e, allo stesso tempo, sentirsi sempre vicini, impegnati senza promessa in un legame stretto e resistente? Sì, si può. Con Hugo Pratt era così”. Luis Borges che “tenne sette conferenze a Buenos Aires, nel 1977. Io ero lì, per il Rugantino – all’epoca certi spettacoli facevano il giro del mondo. Andai a quelle conferenze e rimasi, come tutti, ipnotizzata. Si trovano riunite in un libro, Sette sere“.

Vincente o perdente ornella vanoni

Vincente o perdente è anche molto altro. È un trattato sull’amore, materia per gli intrepidi e i folli come Ornella, la cronistoria di una vita da matti, dove l’arte e l’amore sono stati gli unici antidoti possibile per tenere a bada la noia e la solitudine. A ogni pagina pulsa la vita, quella vera. Di chi sbaglia, di chi ama troppo, di chi perdona, di chi è fragile, di chi s’inceppa, di chi è depresso. “Ho camminato su tacchi altissimi. I più grandi stilisti mi hanno tagliato addosso abiti preziosi, mi hanno vestita di trasparenze e scintillii”, racconta Ornella, “procedevo senza incertezze, guardando dritto davanti, sembrava impossibile raggiungermi. Parevo forte, infrangibile. Ma io so quanto sono stata fragile, e che bastava niente a mandarmi in pezzi – e infatti, a un certo punto, i pezzi non sono più riuscita a tenerli assieme. Un gigante e uno scricciolo nella stessa persona”.

Ornella, vincente o perdente?
“Entrambe. Non ho la bilancia per soppesare. Di periodi bui ne ho avuti tanti, infelicità pure, insicurezze, timidezze. Però faccio di tutto per ricordare le cose belle”.

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Ci si diverte molto a leggere questo libro. Ma dalle pagine si sente che anche lei si è divertita molto.
“Forse perché a una certa età ci si può concedere il lusso di fermarsi: le cose feriscono di più ma i filtri tendono a cadere”.

Infatti sembra di entrare nei suoi pensieri più intimi.
“Mi sono affidata a Pacifico perché so come scrive e ha una sensibilità molto simile alla mia. E anche una certa grazia nel comporre il mosaico. Mi sono trovata benissimo”.

Che infanzia è stata la sua?
“Noiosissima, perché ero figlia unica e non c’era niente allora per passare il tempo, neanche la televisione. Stavo nella mia cameretta a rompermi le palle tutto il giorno. Aspettavo che mi venisse un’influenzina per giocare un po’”.

Con chi?
“All’epoca a Milano c’erano molti negozietti di frutta e verdura. Mandavo giù la cameriera a comprare qualcosa, lei prendeva una cassetta, ci metteva i gattini del fruttivendolo e me li portava sul letto per farmi giocare. Poi dopo un po’ li riportava via perché dovevano tornare dalla mamma gatta. Erano i miei pochi momenti felici”.

Ha sofferto molto la solitudine?
“Pensavo agli altri bambini che si tiravano i cuscini in faccia tra fratelli e dicevo: ‘Beati loro, che gioia’”.

I suoi genitori che tipi erano?
“Tranquilli, molto formali, persone perbene. La mia era una famiglia dell’alta borghesia”.

Ha detto che suo padre le ha scombinato il rapporto con gli uomini.
“Quando arrivò la guerra bombardarono le due fabbriche di famiglia. Sfollammo a Varese. Per proteggermi dalle bombe si buttava sul mio corpo. Associo il senso di protezione al calore del suo corpo, al vigore del suo abbraccio. Non c’erano dei rifugi veri e propri. Potevamo andare nei boschi, all’aperto, o in cantina dove ti facevano compagnia l’umidità e i topi”.

E questo cosa c’entra con gli uomini?
“Ero convinta che pure loro, come papà, si sarebbero fatti uccidere per proteggermi. Non è stato così. Forse non erano in grado di farlo loro, o forse non volevo essere protetta io. Con il passare degli anni anche la figura di papà è cambiata e dopo quella di angelo custode coraggioso ho scoperto un uomo fragile e titubante che soffriva di depressione come poi anch’io”.

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Nel ’44 arrivano gli americani e la guerra finisce.
“Una cosa meravigliosa. Ricordo come fosse ieri questi ragazzoni tutti alti, belli con i capelli corti e la t-shirt bianca che lanciavano cioccolatini, caramelle, qualche sigaretta. Nulla a che vedere con i nostri poveri soldati che indossavano divise grigio verdi tutte consumate. Emanavano un odore di pulito che io non ho mai più scordato, forse è da lì che mi è venuta la malattia di annusare tutto e tutti”.

Che ricordo ha dei suoi vent’anni?
“Ero timidissima, elegante, studiosa il giusto. Poi, ad un certo punto, la mia vita, e quella della mia famiglia, vengono rivoltate come un calzino”.

Che succede?
“Incontro Giorgio Strehler e cambia tutto. Prima avevo avuto dei flirt a Oxford, a Losanna, a Milano e dicevo tra me e me: ‘Se questo è l’amore, che gran rottura di scatole’. Non provavo passione, non c’era struggimento. Ho scoperto l’amore con Giorgio. Prima non sapevo cosa fosse. Quando lui mi disse ‘ti amo da impazzire’ impazzii io. Mi sentivo amata alla follia. Anche se i miei genitori non erano d’accordo e lui era timido”.

Strehler timido con le donne?
“Con chi gli interessava davvero sì. Io prendevo il tram e lui mi seguiva con la macchina; poi, quando scendevo, lui spariva e lo rivedevo il giorno dopo a lezione, a teatro, che la borghesia considerava il luogo del peccato anche se ci si fa un mazzo così”.

Perché è finita?
“Per i suoi vizi, perché le cose finiscono, o le facciamo finire noi. A un certo punto ho chiuso, ed è stato meglio così. Anche se con Giorgio ci siamo sentiti fino a quando non è morto”.

Quanti uomini ha avuto?
“Un po’”.

Di quanti si è innamorata davvero?
“Tre. Strehler, Gino Paoli e un altro, che non è mio marito Lucio Ardenzi (dal quale ha avuto un figlio, Cristiano, ndr)”.

Di Paoli scrive che “se l’amore si misura a sofferenza, a patimento, a mancanza, a sensazione di urgenza permanente, be’, il grande amore della mia vita è stato Gino”.
“Era inafferrabile, si teneva sempre a distanza, il che lo rendeva magnetico. Dicevano fosse omosessuale, ma con le donne aveva un grande successo nonostante sembrasse così secco, un beccamorto. Poi io ero fidanzata e lui sposato. Un giorno a Viareggio sua moglie Anna mi disse che senza di lui non poteva stare. E mi feci da parte”.

Com’è nata Senza fine?
“Entrai alla Ricordi a Milano perché avevo un appuntamento. Passai davanti a una saletta e vidi questo ragazzo che strimpellava il pianoforte. Mi avvicinai e gli dissi: ‘Mi scriveresti una canzone?’. Lui borbottò, non capii se era un sì o un no. Poco dopo, mi chiama e mi fa: ‘Senti qua’. E suona il pezzo. Per il testo, invece, ci ha messo dei mesi”.

Senza fine / Tu sei un attimo senza fine / Non hai ieri / Non hai domani / Tutto è ormai / Nelle tue mani, mani grandi / Mani senza fine.
“Mi appoggiai con le mani al pianoforte che stava suonando. Lo colpirono molto. Un brano bellissimo, un’istantanea”.

La canzone che si è stancata di cantare?
“Nessuna, direi. Alla fin fine le canto tutte con piacere. Io scherzo molto con L’appuntamento“.

Ho sbagliato tante volte ormai che lo so già / Che oggi quasi certamente / Sto sbagliando su di te.
“La vogliono tutti. Un giorno mi chiama la Heinz (la multinazionale agroalimentare statunitense, ndr) per chiedermi di poterla utilizzare per la pubblicità dei loro fagioli. Ero perplessa. Poi mi dissero che lo spot sarebbe andato in onda solo in Inghilterra e Irlanda e allora ho detto di sì. Ultimamente me l’ha chiesta anche Brunello Cucinelli che è un manager illuminato e un uomo che stimo tantissimo”.

Perché ha avuto così tanto successo?
“Forse perché ha rotto la barriera tra me e il pubblico: prima la gente mi considerava fredda, altera, un po’ aristocratica, quel brano mi ha fatto entrare nel cuore della gente. E dopo che George Clooney l’ha inserita nel film Ocean’s Twelwe la conoscono tutti anche all’estero”.

Nel libro parla di tanti suoi amici e colleghi: Lucio Dalla, Enzo Jannacci, Giorgio Gaber, Mia Martini, Mina.
“Tutti grandi artisti. Ognuno geniale a modo suo. Dal punto di vista delle canzoni nessuno può superare Lucio Dalla. Poi c’è il teatro canzone di Gaber, uomo di una dolcezza infinita, talentuoso, ironico e quel genio di Jannacci che conosceva il dolore, la pietà. E sapeva spezzarti il cuore quando cantava di Vincenzina”.

Di Mia Martini dice che poco prima della morte l’aveva incontrata e si era accorta che stava male.
“Sì, poverina. Era una grandissima cantante, un’interprete pazzesca”.

Dei cantanti di oggi chi le piace?
“Mahmood, tantissimo. Con me è molto affettuoso e carino. Mi piacciono anche le sue pettinature. Poi c’è Madame che è davvero in gamba. E adoro Lady Gaga”.

Di Craxi elogia il carisma.
“Si prendeva il lusso di fare le pause mentre parlava e ti costringeva ad ascoltarlo. Ha pagato lui per tutti”.

E Berlusconi?
“Gli stavo un po’ sulle balle, diceva in giro che avevo un caratterino ostico, me lo disse Montanelli”.

Cosa legge adesso?
“I romanzi mi stancano, mi ci perdo, anche se le storie continuano ad affascinarmi e infatti vado al cinema volentieri. Preferisco le poesie. Siamo in quattro gatti a leggerle. E poi i libri di poesia sono eleganti e arredano. La poesia puoi prenderla a piccole dosi senza il timore di perdere il filo, puoi leggere tre versi e richiudere il libro. E sentirti sazio, aver trovato o ritrovato qualcosa. In ogni riga può esserci una sorpresa, un attimo di commozione e di beatitudine”.

Quali autori le piacciono?
“Patrizia Valduga è straordinaria. Di Wisława Szymborska c’è la poesia Monologo di un cane coinvolto nella storia che mi fa accapponare la pelle per il piacere e per il dolore. E mi piace molto Vivian Lamarque”.

Nel libro dice che la nostalgia è un lusso che ci si può permettere solo da giovani. Perché?
“Alla mia età la nostalgia non serve, è dannosa, ti fa solo morire di dolore. Ti fa ricordare ogni cosa con rimpianto mentre bisogna cercare di vivere il presente con tutte le forze che si hanno e al meglio. Abbiamo poco tempo e dobbiamo occuparlo bene. Il futuro è incerto, il presente no”.

Ha soprannominato la morte “la Musona”. Racconta che cerca di farla sorridere, scherzandoci, per distrarla dal sopraggiungere.
“Invece di temerla, scongiurarla, tacerla, io ne parlo. Continuamente! Anche se molti si scandalizzano e mi rimproverano: “Ma che dici”. Non li capisco, sai”.

Non ha l’angoscia della fine?
“Tutti abbiamo una data di scadenza, solo che non la sappiamo. Come accade nel film Blade Runner tra Rick Deckart che si innamora di Rachael, una donna bionica, e le chiede la data di scadenza e lei ricorda a lui che anche gli uomini, come le macchine, a un certo punto scadono”.

Lei ha fede?
“Sì, credo molto in Gesù. Però la fede, la preghiera ti sostengono in vita. Davanti al Mistero siamo tutti impreparati, impauriti, spiazzati. Il cardinale Martini, che quando incontrai mi mise soggezione con la sua intelligenza e il suo sguardo penetrante, diceva: ‘La mia fede è forte ma sono un uomo, e ho paura’. Immagino mio padre davanti al Mistero senza più il cappottone addosso che può finalmente chiedere aiuto”.

E lei, invece?
“Mi tolgo con cura le scarpe, ripiego abiti colorati e foulard. E, con la tremarella, tiro fuori il più furbetto dei sorrisi”.

Le piace papa Leone XIV?
“Vediamo cosa farà. Lui ha detto che seguirà le orme di Francesco mettendo al primo posto la pace, i poveri, gli ultimi. Speriamo sia così perché ce n’è tanto bisogno in questo momento. È americano, quindi tutto da scoprire”.

Come se l’immagina il suo funerale?
“Ho già organizzato tutto per non dare impicci ai parenti. Ho scelto vestito e scarpe. Ho chiesto a Paolo Fresu di suonare la tromba. Se muore prima lui, ma non credo, andrò io a cantare al suo funerale”.

Cosa c’è dopo?
“Se lo chiedono tutti, non lo sa nessuno”.

Ha rimpianti?
“Rimpiango il meglio del passato, non il passato. Ora sono un po’ stanca. Magari il resto te lo racconto davanti a un caffè”.

Anche due. Ne ha di cose da raccontare.
“Allora facciamo un caffè shakerato con due bei cubetti di ghiaccio”.

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