Non è né un saggio di critica letteraria (pur analizzando svariati testi), né di filosofia (pur facendola), e nemmeno uno studio di teoria femminista, di cinema, teoria queer, di critica marxista; nemmeno è una critica della vita quotidiana, né una riflessione su quanto di impersonale ci sia nell’individuale. Ma è anche tutte queste cose insieme. Finalmente tradotto in Italia, “Ottimismo Crudele” di Lauren Berlant è la quintessenza di “libro importante”, qualsiasi cosa significhi. Berlant descrive quell’intuizione viscerale che lega chiunque al suo tempo e al tempo stesso i gesti irriflessi, i ritmi, i desideri e la logica profonda di un presente in cui si logorano le nostre fantasie di “buona vita”. Non può che chiedersi come mai non sappiamo distaccarcene. Le domande che pone, le risposte che offre, lo hanno reso uno dei più rilevanti libri di “critica culturale”.

La cosa più difficile da dire su un libro è che sia importante. È difficile dirlo perché è un luogo comune. Ma un luogo comune con delle ottime ragioni: ragioni che poggiano su condizioni materiali. Nel campo dei libri l’offerta di libri possibili (enorme), la domanda (insomma), il sistema delle rese, eccetera, rendono praticamente ogni testo importante e rendono urgente dirlo.

Uno può stare abbastanza sicuro che se si pubblica un libro, specie se lo fa un editore medio-piccolo, questo venga considerato sinceramente importante. E può stare sicuro che si creda sinceramente che bisogna dirlo e in fretta. Il che rende il tutto paradossale: dire proprio di un libro importante che sia importante dà la sensazione di offrire una stampella a uno che sta benissimo in piedi con le sue gambe.

Ottimismo crudele

Eppure ci sono scale e livelli. Se le parole sono parole e le cose, cose, ci sono testi importanti e testi più importanti. Appena pubblicato da Timeo, nella traduzione di Chiara Reali e Giorgia Demuro, Ottimismo Crudele di Lauren Berlant è la quintessenza di libro più importante, qualsiasi cosa significhi, anche dentro l’insieme dei libri importanti.

Questo di Berlant è un unicum: dove lo metti non sta. Nato all’interno di una tradizione accademica minoritaria dei cui discorsi si nutre e con la quale dialoga ampiamente – andrebbe letto almeno insieme a La promessa della felicità (Sossella, trad. it. Amelia Papa-Rolando e Laura Scarmoncin) nel quale Sara Ahmed si chiede: cosa fa la felicità alla vita? Risposta: cose crudeli -, l’ambizione che lo muove lo rende inclassificabile e di difficile collocazione editoriale.

La promessa della felicità

Questo spiega forse i dieci anni che ci sono voluti per vederne una traduzione in un sistema editoriale, quello italiano, di solito veloce nel ricevere anche libri complessi (famoso il caso di Infinite Jest, che, per dire, in Francia è uscito tipo l’altro ieri). È un testo che non fa sconti al lettore: troppo denso e troppo accademico per rivolgersi esclusivamente a un pubblico non specialistico. Ed è un testo che pesca da troppi campi diversi, con troppa disinvoltura (troppo fondativo?, osano i fedeli): un testo accademico che procede in modo paradossalmente troppo antiaccademico, per non essere guardato con sospetto all’interno delle università, almeno in Italia.

Lauren Berlant insegnava nel dipartimento di studi letterari dell’Univeristà di Chicago, ma Ottimismo crudele non è né un testo di critica letteraria (pur analizzando svariati libri), né un testo di filosofia (pur facendola), e nemmeno uno studio di teoria femminista, di cinema, teoria queer, di critica marxista (una nuova fase nella storia dell’ideologia, parlando d’altro, ha detto una volta Berlant); nemmeno è una critica della vita quotidiana, né una riflessione su quanto di impersonale ci sia nell’individuale. Ma è anche tutte queste cose insieme.

Tagliando corto spesso si sente che è uno dei più importanti libri di critica culturale (la vaghezza della definizione nasconde un imbarazzo) e che Berlant sia l’esponente principale di quanto poi ha preso a chiamarsi Affect Theory, di cui Ottimismo crudele è il risultato più celebre. Orientarsi all’interno dell’Affect Theory poi è notoriamente difficile, il che attira critiche prevedibili; io per primo, tentato dall’Affect Theory Reader, alla quarta nozione post-deleuziana di in-between-ess, ne sono uscito con la granitica convinzione di non essere troppo sveglio.

Eppure Ottimismo Crudele è un testo straordinariamente, sorprendentemente, riuscito in ciò che vuole fare a dispetto, contro, e grazie alle sue difficoltà. Provare a capire perché significa parlare di perché sia importante.

Berlant vuole fare due cose allo stesso tempo. Primo, ha il pallino della generalizzazione. Partendo dall’intuizione di Lukásc (e, poi, di Jameson) per cui nelle forme (il romanzo storico) si imprime un residuo del tempo nel “tono” e nel  “sentimento”, e da quella di Raymond Williams che parla di una “struttura del sentire” che permette di raccogliere il residuo dell’esperienza storica comune, Berlant vuole individuare un concetto (di “un’opera formalista” parla nell’introduzione), il più possibile comune, in cui il residuo del presente storico si depositi nella grana di ogni vita individuale. Le interessa descrivere un’intuizione viscerale (che è un affetto, donde l’Affect Theory), qualcosa di precedente a ogni riflessione, concettualizzazione, che leghi il suo tempo e chi lo vive.

Secondo. Vuole farlo dando legittimità al suo metodo di analisi e agli oggetti del suo studio. Propone un materialismo dell’atmosfera e di dare l’esito della sua applicazione. Oppure, detto in un altro modo, in modo diverso da come lo direbbe Berlant, Ottimismo crudele è un unicum perché vuole dire che effetto fa stare al mondo oggi, nel tardo capitalismo, nell’antropocene, nel neoliberismo, chiamatelo come volete, e non astrattamente, ma assestando l’analisi all’altezza della vita ordinaria, dire dove analizzarlo (in quali oggetti si coagula il sensorio storico: negli oggetti estetici) e dire come farlo (e difendere questo come: questo il lato più accademico). È anche troppo e non è davvero tutto, in realtà Berlant dissemina intuizioni (propone almeno una teoria del desiderio e una teoria dell’agentività, per citarne un paio), ma procediamo con ordine.

Ciò che Berlant chiama Ottimismo crudele è la struttura che assume una relazione. La relazione tra un soggetto, i suoi affetti, le fantasie impersonali che fluttuano nel presente (quelle astrazioni che ti legiferano dentro), il modo con cui questo soggetto vive la sua vita e, in generale, l’oggetto di un desiderio e il tempo in cui si vive.

Pagina 1, riga 1, Berlant scrive: «Una relazione di ottimismo crudele si instaura quando qualcosa che desideri in realtà è un ostacolo alla tua stessa realizzazione». L’oggetto del desiderio per Berlant non è una cosa in sé. È un insieme di promesse che speriamo e ci adoperiamo perché si realizzino; ogni affetto, continua, è ottimistico, perché è quella forza che ci spinge a protenderci verso qualcosa che sia esterno da noi (un oggetto o una “scena del desiderio”) per poter soddisfare quelle promesse. Questo movimento verso l’esterno diventa crudele quando “l’oggetto che suscita il tuo affetto” non solo è una promessa irrealizzabile, ma «ostacola in maniera attiva l’obiettivo che inizialmente ci aveva spinto».

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Sembra estremamente astratto. Per fortuna di Berlant, purtroppo per noi, non lo è. Potrebbe essere qualsiasi cosa: un paio di esempi. Ti innamori, sperimenti la sensazione che l’impossibile in fondo sia possibile. Ti spingi, ottimisticamente, fuori di te: verso l’idea che le condizioni dell’amore siano reciproche e durature: per sempre vissero felici e contenti. Ogni indicatore empirico, sociologico, statistico, culturale ti dice che l’amore, qui e oggi, è qualcosa di diverso dalla fantasia verso cui tendi, ma non riesci a fare a meno di provare un affetto, un impulso viscerale, preriflessivo, che ti lega a quella fantasia. I rapporti, come accade, si ridefiniscono, muti; si rompe quella convenzione di reciprocità; l’impossibile è sempre stato impossibile, non pensi neanche per un secondo di sperimentare una forma diversa di questa relazione, ma rimani attaccato, navigando a vista, a quell’idea che logora la vita; e il tempo scorre nel disamore. Questa, banalizzando un po’, è una forma di ottimismo crudele. O forse no; la gente si lascia, gli amori finiscono: è ottimismo crudele l’attaccamento a quella fantasia, o il consumare ogni amore fino a farlo spegnere cercando sempre, di nuovo, quello vero, che pareggi i conti e risolva la vita.

Ancora: ogni indicatore empirico, sociologico, statistico, o culturale ti dice che la tua generazione (se hai, circa, dai quarant’anni in giù) non avrà le condizioni di stabilità, di capitale, le condizioni di “buona vita” (nel lessico di Berlant) dei tuoi genitori o, banalmente, quelle che hai immaginato quando bambino pensavi al tuo roseo futuro: ciononostante, vivi la tua precarietà, la mancata realizzazione di quelle promesse, come il fallimento di un intero progetto esistenziale, rimani attaccato a quella promessa perché non farlo significherebbe sventolare bandiera bianca verso ogni speranza nel futuro, e continui a sforzarti sempre di più, sempre di più, oscillando tra euforia (eccola che arriva la svolta) e disperazione, e ti immiserisci per ottenere il sottoprodotto del suo sottoprodotto. Il ritmo di una stasi: la vita di tutti?, quasi (di chi sei figlio?). Ottimismo crudele, sì.

Questa relazione interpreta il presente storico. Berlant è convinta che il presente sia caratterizzato dalla «ritrattazione, avvenuta negli ultimi trent’anni» della promessa socialdemocratica del secondo dopoguerra in Europa e negli Stati Uniti. Pensa che le fantasie su cosa significhi avere una vita e farsi una vita prodotte da quel luogo nel tempo, che continuano a strutturare le astrazioni con cui chiunque pensa all’idea di realizzazione, oggi siano “arcaiche”. Pensa che stiamo assistendo al crollo delle «convenzioni di reciprocità» che legavano le relazioni tra fantasia, vita ordinaria e le sue rappresentazioni.

«È un libro», scrive, «sul logoramento di una fantasia, su una forma di vita sulla quale investiamo collettivamente: la buona vita». Quella cosa, scrive, al tempo stesso «intima-morale-economica», che ha che fare con la mobilità sociale, la sicurezza economica, la giustizia sociale, la stabilità affettiva e struttura «il nostro senso di cosa una persona dovrebbe fare e aspettarsi».

Ottimismo Crudele permette di esplorare in maniera teoricamente fondata, e allo stesso tempo quotidiana, ciò che trama l’infraordinario. Cosa prova chi in qualche modo sa che l’oggetto del suo desiderio è irrealizzabile (quanto sappia il soggetto invero non è chiarissimo: i dieci anni di distanza dalla pubblicazione, la piega degli eventi, il taglio dei discorsi, il fatto che esistano generazioni adulte che non hanno vissuto nient’altro che “l’ordinarietà della crisi”, l’esistenza del concetto di policrisi, fanno propendere per il sì: che, dieci anni dopo, se non sei cosciente del logoramento di quella fantasia che scintilla come buona vita, bè, è un problema tuo), e nonostante questo non riesce a smettere di vivere l’attaccamento a quella fantasia, e, anche quando si accorge che tutti gli sforzi che fa per avvicinarsi a quella promessa sembrano più una logorante corsa di ratti che un avvicinamento, anche quando spaventosamente lo sa, non può fare altro che continuare. Il che, mi sembra, secondo Berlant, – ed è un pugno in faccia, di quelli sani, giovanili, violentemente pedagogici – è la struttura di chiunque desideri qualsiasi cosa: chiunque desideri una buona vita: chiunque.

Cruel Optimism

Il tempo (il capitalismo) opera al livello del desiderio. E il desiderio salda le parti al tutto. Abbiamo detto che Berlant è interessata alla generalizzazione, e ne ha il dono. Infatti, Ottimismo crudele è un progetto riuscito per l’incredibile verticalità di questo concetto. L’ottimismo crudele si applica tanto ai gesti irriflessi della vita ordinaria quanto al respiro della specie. Come chiamare altrimenti il fatto che lo stesso impulso (lo stesso affetto) che ha servito la nostra sopravvivenza e ci ha permesso di prosperare come specie, quel principio di strumentalità che ha fatto di un albero un riparo, di un fossile energia, che ha creato l’infrastruttura di un benessere di massa, al tempo della distruzione climatica, al tempo della traduzione persino di ogni interiorità in una risorsa da sfruttare, stia lavorando attivamente alla nostra distruzione, mentre non possiamo fare altro che continuare. Nell’editoriale del numero 33 della rivista n+1, The best of a bad situation, gli editorialisti scrivono che questa struttura del sentire (questo attaccamento) è un variante dell’ottimismo crudele, e aggiungono, «this is what extinction feels from the inside».

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Dall’interno: uno degli obiettivi di tutta l’opera di Berlant è quello di dimostrare il riverbero del fuori nel dentro. Detto altrimenti, Berlant ha anche il dono della causalità. La capacità di individuare le cause impersonali, la sutura dei destini generali sul sensibile, su quello che sperimenti e percepisci tutti i giorni come sinistramente, terribilmente quotidiano e tuo e, che è pubblico – l’enorme tema della privatizzazione dello stress, delle cause impersonali della malattia mentale, dell’atroce folla di cerotti individuali su ferite sistemiche. «Depressed?», ha scritto, «It might be political!».

La causalità, combinata alla generalizzazione, ci avvicina forse al punto cruciale. Se Berlant si fosse limitata, per spirito di geometria, a mettere in fila fenomeni tettonici e dire che è tutta colpa del capitalismo, Ottimismo crudele sarebbe al massimo un testo interessante. Ci direbbe che la pedagogia implicita dei brand (just do it, never give up, impossible is nothing, believing is magic…) ti spinge a volere tutto e contemporaneamente a doverti sempre accontentare di qualcosa. Ma lo sai già benissimo. Berlant invece è interessata al suo formalismo, alla sua logica profonda.

Se si provasse un attaccamento nei confronti di una promessa che a un certo punto si scopre irrealizzabile, l’ottimismo di cui parla sarebbe “sconveniente o tragico”, ma il punto non è la tragedia, ma la continuità crudele di un mancato distacco, quel senso che sia impossibile non stare gioco.

Berlant assume il logoramento della fantasia di una buona vita come un dato. Ciò che le interessa davvero è capire perché sia così difficile abbandonare forme di vita che non funzionano. La nozione di affetto, di attaccamento, la nozione di genere di vita, di impasse, quella di morte lenta, la critica alla dialettica dell’agency e dell’evento, del trauma come categorie di analisi politica, l’intero edificio teorico che costruisce, serve a riformulare quel senso di claustrofobica paralisi politica (erano i tempi in cui si rifletteva molto su una “crisi dell’agentività”) nella questione ordinaria, esistenziale, quasi pratica, del perché sia così difficile il distacco da una fantasia.

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Perché, per dire, non scatta un qualcosa nemmeno di fronte alla prospettiva dell’estinzione di massa? Berlant ritiene che non si debba pensare alla crisi, o meglio alle crisi, come evento che genera una risposta, ma come una situazione, un ambiente che uno abita come può. «La maggior parte di ciò che facciamo non implica intenzionalità», scrive, le nostre azioni non danno una «risposta simmetrica a condizioni strutturali di fallimento collettivo», né sono il frutto di una mancanza di responsabilità. Mirano a rendere meno negativa, qui e ora, l’esperienza complessiva. «È un sollievo, una tregua, non una riparazione». Senza accorgertene, la vita diventa una partita al massimo da pareggiare, «per mantenersi» – con l’oggetto del desiderio – «almeno in una relazione di reciprocità o una in forma di riconciliazione che non equivalga alla sconfitta». Continuare, anche quando quello che vuoi attivamente ostacola la tua realizzazione, è un modo di stare ancora dentro quel desiderio, di stare comunque dentro, galleggiando a vista, alle «proprie condizioni di possibilità esistenziali».

Berlant lambisce un’intera famiglia di riflessioni che hanno affrontato i vicoli ciechi del presente. Al lettore italiano interessato a questo genere di discorsi potranno venire in mente testi di una densità che fa impallidire. L’ultimo Mario Tronti che oscillava nel voler comunicare uno stato di “disperazione teorica” o di una “disperazione storica”. Fortini, sempre in anticipo sul futuro, che in una pagina incredibile de L’ospite ingrato scriveva, «non esistono alternative alla realtà. Il mondo è unico. Non esiste l’altro mondo. […] Non sei disperato. Sei nella non-speranza. È tutta un’altra cosa». Cos’è quest’altra cosa? Che struttura ha la non-speranza? Che faccia mostra negli interstizi di tutti i giorni?, si sarebbe chiesta Lauren Berlant.

Spesso, proprio dalla tradizione italiana, parlando di Ottimismo crudele, si fa il nome di Giorgio Agamben. Si cita quel passo in cui Agamben discute della «forma in cui l’umanità è sopravvissuta al nichilismo». Ottimismo crudele, si potrebbe dire, elabora questa immagine. Cosa significa vivere in questa forma? Quanto lì suggeriva la forma astratta di un vicolo cieco, immagine sintetica il cui dominio è l’intera umanità, in queste pagine diventa analitica esistenziale, catalogo di gesti irriflessi, di spasmi, di improvvisazioni, di adattamenti, di movimenti e stasi che ti si verificano dentro. Berlant sa rendere visibile il visibile, sa farti percepire quella struttura nelle cose e nel ticchettio dei giorni. A me sembra, non mi viene un’altra parola, una cosa importante.

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