Dopo “A misura d’uomo”, Roberto Camurri torna con “Il nome della madre”. E in quest’intima riflessione si interroga sul perché ambienta le sue storie a Fabbrico e sul perché, quasi sempre, crea personaggi silenziosi e alla ricerca di un loro posto nel mondo, sopraffatti da emozioni che non sanno spiegarsi. Lo scrittore emiliano parla della sua infanzia e della sua famiglia e cita il cinema di Michael Bay, “Revolutionary Road” e gli altri libri di Yates e un film come “Manchester By The Sea”

Ogni tanto mi chiedo perché scrivo le cose che scrivo, perché ambiento le mie storie a Fabbrico, perché, quasi sempre, creo personaggi silenziosi e alla ricerca di un loro posto nel mondo, sopraffatti da emozioni che non sanno spiegarsi.

Me lo domando perché il mio film preferito è Pacific Rim, un film in cui robot giganteschi combattono contro mostri giganteschi, trascinano petroliere lungo le strade di una città in macerie per schiantarle sui denti di enormi aberrazioni uscite dalle profondità oceaniche. Michael Bay è, ai miei occhi, il regista più sottovalutato di questa generazione: i primi venti minuti di 6 Underground, l’inseguimento a Firenze, le esplosioni, le macchine che si accartocciano dopo essersi capovolte, sono la realizzazione dell’idea più pura di quello che per me è cinema.

Sono figlio unico e questi film, l’esaltazione che provo quando leggo che sarà realizzato un film con uno squalo gigante, sono la possibilità di vedere sullo schermo quello che da bambino potevo soltanto immaginare mentre giocavo da solo in camera mia, inventando storie, mostri e battaglie, come quando immaginavo dinosauri camminare nel mio giardino. Quando ho iniziato a scrivere mi sarebbe piaciuto seguire questo immaginario; scrivevo di cose che esplodevano, di alieni giganteschi che invadevano il nostro pianeta lasciando dietro di sé soltanto distruzione. Ho riletto da poco alcuni pezzi di Michele Mari, quelli in cui racconta la propria infanzia, la fascinazione per le copertine Urania, il nascondere i propri fumetti per evitare la delusione se suo figlio non li avesse venerati come lui, il terrore di non essere riconosciuto come essere umano, mi ci sono ritrovato in quella strana miscela, argomenti considerati bassi mischiati a una lingua altissima, intoccabile, nel bisogno di unire le due cose.

Ho scoperto, però, che non sono capace di scrivere di creature fantastiche e distruttrici, di mostri, che cerco sempre una motivazione dietro quella violenza, una motivazione che mi permetta di capire, di non giudicarli, spiegarmi come mai siano così arrabbiati, perché non si mettano seduti a spiegare le loro emozioni invece di spaccare palazzi.

I miei genitori sono quelli che una sera mi hanno detto di vestirmi, che saremmo usciti, che mi hanno caricato in macchina senza dirmi dove saremmo andati, che, in una sala buia di un cinema, mi hanno permesso di vedere per la prima volta un Tirannosaurus Rex che sfondava una recinzione elettrificata. Sono anche quelli, però, che mi hanno cresciuto con un retaggio di relazioni familiari che tenevano i bambini all’oscuro, un’educazione fondata su un senso di protezione che si trasformava in silenzio.

Li vedevo arrabbiati, lontani, preoccupati per qualcosa che non aveva nulla a che fare con me, questioni lavorative, di coppia, dinamiche che non capivo e che non mi venivano spiegate, portandomi a pensare che quella distanza fosse colpa mia.

E quella solitudine, quello stare per la maggior parte del tempo in una casa con solo adulti, forse, mi permette di sintonizzare la parte immaginifica con quella che mi rendeva incomprensibili i miei genitori, i loro silenzi, la difficoltà ad aprirsi. Ed è con quello stesso sguardo bambino, oggi, che provo a raccontare i miei personaggi, provo a spiegarmi le difficoltà dell’essere adulti, di cosa significa esserlo, il percorso che ti porta a fare i conti con le generazioni che ti hanno cresciuto per trovare il proprio modo di stare al mondo. E, se in A misura d’uomo mi confrontavo con i rapporti tra pari, le amicizie, gli amori, la memoria che definisce una comunità, ne Il nome della madre mi sono concentrato su ciò che significa essere genitori e figli.

Quando ho iniziato a scriverlo ho pensato a Yates, con Revolutionary Road e poi con tutti gli altri suoi romanzi e racconti, a come sia un maestro nel mettere in scena la disgregazione della famiglia, dei rapporti che si credono eterni e che improvvisamente implodono attraverso un fiume di parole che quasi mai esternano i pensieri dei protagonisti. A come i suoi personaggi mentano per primi a loro stessi, tenendosi aggrappati all’amore, qualcosa che credevano sicuro mentre lo costruivano e che poi si rivela fragile, una maschera per nascondere la finzione che crolla all’improvviso.

Ho cercato di ribaltare quello che Yates è stato in grado di fare, ho provato a nascondere segreti dietro a silenzi, a costruire personaggi che provano a vivere in un microcosmo impermeabile a quello che li circonda, incapaci di esprimere a parole la mancanza della donna – quella madre che dà il titolo al romanzo – che li ha abbandonati.

Personaggi che si esprimono con azioni a volte indecifrabili per Pietro, il protagonista del libro, azioni che lo costringono a cercare la propria strada senza poter contare su nessuno, senza avere alcun supporto, senza nessuno che lo educhi a riconoscere il dolore che gli provoca l’essere stato abbandonato. È quello che tenta di fare il protagonista di un altro dei miei film preferiti, Manchester By The Sea, quando si vede costretto a tornare mettendo fine a una solitudine autoimposta e dettata da un senso di colpa troppo grande: allontanarsi per non contaminare con la sua presenza, con il proprio dolore, le persone che ama, lasciando loro la possibilità di essere felici.

È per tutto questo che, forse, scrivo le cose che scrivo, il motivo per cui ambiento le mie storie a Fabbrico. Per ritrovare quei dinosauri, quella solitudine, per fare pace con l’adolescente che sono stato, quello che addossava la colpa di tutto ai propri genitori. Per riuscire a conoscerli senza giudicarli, vederli con le esperienze che ho fatto oggi provando a guardarli con gli stessi occhi di quando ero bambino. Perché, e di questo ne sono sicuro, il mio immaginario si è formato lì, mentre sognavo a occhi aperti nel buio di quel cinema, con mia madre da un lato e mio padre dall’altro, in silenzio.

Il nome della madre camurri

L’AUTORE E IL NUOVO LIBRO – Roberto Camurri è nato nel 1982. Vive a Parma ma è di Fabbrico, “un paese triste e magnifico di cui è innamorato forse perché è riuscito a scappare”. È sposato con Francesca e hanno una figlia.

Dopo A misura d’uomo, suo apprezzato esordio (vincitore del Premio Procida e del Premio POP e tradotto in Spagna e Olanda), torna in libreria sempre per NN con Il nome della madre, un romanzo che parla di famiglia e relazioni, di sentimenti espressi a fatica e spesso condivisi in silenzio, ma che palpitano sotto la pelle dei personaggi, guidandoli alla ricerca del loro posto nel mondo.

Quanto alla trama del nuovo libro, da quando sua moglie se n’è andata senza dare spiegazioni, Ettore vive da solo con il figlio piccolo a Fabbrico, nel cuore della pianura padana. L’assenza della moglie popola la mente di Ettore, che oscilla tra i teneri ricordi di lei, donna imperscrutabile e feroce, e gli sforzi furiosi di dimenticarla. Anni dopo sarà il figlio Pietro a ereditare questo vuoto, in perenne conflitto col padre e con Fabbrico, desideroso di amare ma incapace di abbandonarsi alle emozioni.

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