Roberto Vecchioni non è solo un famoso e premiato cantautore: è anche uno scrittore e, per oltre trent’anni, è stato un insegnante di greco e latino al liceo classico, un’esperienza di cui scrive nel suo nuovo romanzo, “Lezioni di volo e di atterraggio”. “Educare significa tirar fuori dai ragazzi quello che hanno dentro, non soltanto mettergli dentro qualcosa”, racconta in un’intervista a ilLibraio.it, sottolineando l’importanza della fiducia tra professori e studenti: “Una classe che non ti dà fiducia o tu che non dai fiducia a una classe è uno sperpero di tempo e di spazio, non serve a niente”. Parla anche della scuola italiana ai tempi della pandemia, sostenendo che “la didattica a distanza è un rimedio, una panacea, e per fortuna che c’è”, ma aggiunge che la scuola è “un evento corale e collettivo”. Non solo, difende la categoria: “Da noi gli inseganti sono trattati malissimo. Sono sottopagati, considerati in maniera insufficiente…”
Cantautore, scrittore, poeta ed ex insegnante classe ’43, Roberto Vecchioni ha trascorso oltre trent’anni della sua vita a spiegare il greco e il latino, l’aoristo e la consecutio temporum al liceo classico, professione che ha svolto con una passione e un entusiasmo che conserva ancora oggi, quando ne scrive nel suo nuovo libro: Lezioni di volo e di atterraggio (Einaudi) è un romanzo dedicato all’insegnamento come vocazione, al rapporto di fiducia e di intesa che nasce tra studenti e insegnanti, grazie a docenti che in fondo non sono solo professori, ma anche mentori, maestri di vita.
Autore di libri quali Il libraio di Selinunte, La vita che si ama. Storie di felicità e Il mercante di luce (Einaudi), Vecchioni ha già scritto della sua esperienza dietro la cattedra, ma questa volta sceglie di raccontare un esperimento tutto suo, una variazione sul tema realizzata con i suoi studenti durante gli anni ’80, quelle che nel libro chiama “le giornate di follia”. Accompagnava i ragazzi fuori dalle mura scolastiche, all’aria aperta, spesso a Parco Sempione, per fare un gioco, un esercizio di associazione: proponeva loro un tema o una parola e ciascuno di loro doveva collegarne un’altra, dando vita a catene di parole e concetti, riflessioni e possibilità.
“Quando cominciò questo andazzo, anni fa, era tutto un guazzabuglio e un recitar a soggetto, ma nel tempo le carte si mise a prepararle prima, dandoci indizi di dove saremmo andati a cacciarci. Capimmo il gioco, diventammo invincibili: no, non nel senso di battere qualcuno a qualcosa. Invincibili a stravolgere le idee preconfezionate, le opinioni comuni, a farcire la storia e il pensiero umano di possibilità parallele, ci passavamo l’un l’altro un gomitolo non da sciogliere ma da aggrovigliare: smontavamo per rimontare da un’altra parte in altra forma, fili invisibili ci portavano altrove, come se il reale fosse solo una delle possibilità e il fantastico altrettanto reale, parallelo all’infinito, forse”. Così scrive nelle prime pagine del libro il cantautore di Samarcanda, Il libraio di Selinunte, Sotto il segno dei pesci, un poeta della canzone italiana, autore dell’album Montecristo, che sta per essere pubblicato nuovamente dopo essere stato fuori commercio per molti anni.
Vincitore del Festival di Sanremo nel 2011, grazie al brano Chiamami ancora amore, Roberto Vecchioni si sofferma a riflettere su quello che ha significato per lui essere un insegnante: in un momento storico come il 2020, in cui la didattica a distanza è l’unica strada sicura nonostante i limiti e le difficoltà che comporta per professori e studenti, Lezioni di volo e di atterraggio mette in luce l’importanza del rapporto umano che si instaura tra il docente e i suoi pupilli, un rapporto che non arricchisce soltanto il discepolo, ma anche il mentore, in egual misura.
ilLibraio.it lo ha intervistato per parlare del suo nuovo libro e della scuola italiana, prima, dopo e durante la pandemia.
Roberto Vecchioni, nel suo libro si percepiscono la sua passione e l’entusiasmo nei confronti dell’insegnamento, un onore che è anche un onere: ha mai sentito il peso di quella responsabilità?
“Ma sa, sono piuttosto scapestrato, non bado a certi ostacoli. Sì certo, si sente il peso, ma si va avanti, quando si intraprende una strada e ci si dice ‘quella è la mia strada’, allora non c’è niente di più bello; poter dare una piccola eredità ai ragazzi, qualcosa che possano portare come baluardo, come una difesa per la vita. E allora il peso se ne va, quando fai una cosa che ti piace, che ami, non senti la fatica, né la febbre, né il male, né la stanchezza, non senti nulla perché quella è la cosa più importante. Sono stato stanco sul palco o mentre scrivevo romanzi, ma a scuola non mi ricordo mai di essere stato stanco”.
Lei descrive un modo di insegnare che va oltre il nozionismo dei libri di testo.
“Certo, il libro racconta proprio questo: va bene che la scuola sia regole, aula, nozioni, è giusto sia così. Ma c’è una percentuale, anche minima ma molto potente, che invece ha un’altra funzione, cioè svegliare i link che ci sono nella testa dei ragazzi, le possibili associazioni mentali tra una cosa e l’altra; perché la scuola non è fatta di materie separate una dall’altra…”.
Ma di cosa è fatta?
“Di umanesimo, anche scientifico, mica solo classico: umanesimo nel senso che tutto va in tutto, il mondo è un insieme complesso di cose collegate, e noi possiamo saltare da una materia all’altra come facevamo nelle discussioni nel parco, tentando di capire che siamo padroni di questo insieme che il passato ci ha consegnato e non possiamo distinguerle una dall’altra. Si può benissimo passare dalla pittura alla chimica, dalla chimica all’inglese e dall’inglese alla poesia. È quello il bello della funzione maieutica dell’insegnamento, educare significa tirar fuori, tirar fuori dai ragazzi quello che hanno dentro, non soltanto mettergli dentro qualcosa”.
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Cosa intende per lezioni di volo e di atterraggio?
“Le lezioni di atterraggio sono semplici, sono quelle nell’aula scolastica, quelle in cui si insegnano gli aoristi, i congiuntivi, la letteratura, la chimica, i protoni e i neutroni. Attenzione: l’atterraggio non è una diminuzione, è il nozionismo di base ed è giusto che sia così, bisogna averlo e non appiattisce la personalità del ragazzo. Però non basta”.
Servono anche le lezioni di volo.
“Bisogna che il ragazzo vada oltre le nozioni e possa volare, volare è il verbo giusto. Deve potersi ergere e guardare un po’ più in alto, più lontano: non solo imparare quello che c’è nei libri, ma inventare qualcosa di suo, scoprire qualcosa di nuovo nella storia, nella filosofia e nel pensiero, mettere dei se e dei ma, cioè ricostruire il mondo a modo suo con la sua personalità, per questo ho dato ai ragazzi i nomi di pittori”.
Perché non i nomi di musicisti?
“Perché i pittori creano colori. I ragazzi dipingono se stessi con lo stile che ognuno ha, qualcuno figurativo qualcuno astratto, qualcuno dadaista, ognuno ha il suo stile però vogliono dipingerla la loro vita. I musicisti sono quasi tutti musoni, parlo dei grandi musicisti classici: esistono sono loro e le note, basta. Si poteva anche usare i nomi di musicisti, ma mi sembra che i pittori e le pittrici abbiano avuto una vita molto più baldanzosa e divertente, molto più mondana, mentre i musicisti vivevano molto appartati, penso a Beethoven a Brahmns, se stavano per i fatti loro. Invece se penso a Caravaggio, a Tiziano, a Leonardo è tutta gente che andava in giro e si godeva la vita. Quindi ho preferito usare i pittori”.
Quale è stato il più grande cambiamento nella scuola italiana da quando insegnava lei a oggi?
“Be’ ci sono stati dei cambiamenti in peggio, tantissimi. L’esaurirsi dell’umanesimo, questo concetto che il liceo classico sia un liceo da snob o comunque fuori tempo, mentre invece è l’unico liceo possibile dal punto di vista umanistico, perché trascina come oro e argento tutto quello che è arrivato fino a noi dalla cultura classica. Sono cose che hanno ancora valore, tutto ciò che ci è stato insegnato dagli antichi, dai greci, dai filosofi, dai matematici, dai pensatori, dai retorici, dai politici: nulla è cambiato, tutto quanto è ancora come l’avevano discusso loro e questa discussione ce l’hanno differita, l’hanno portata a noi e laddove non l’hanno risolta l’hanno affidata a noi. Non possiamo studiare la storia del mondo a partire dalla rivoluzione francese e neanche dal Rinascimento, dobbiamo per forza partire dalla Grecia classica, sennò lasciamo come un buco dietro di noi. Se tutto quanto è una trasmigrazione di dati, pensieri, concetti verso di noi, la perdita dell’umanesimo è drammatica. Capisco che si possa un pochino addomesticare il fatto di dover tradurre sempre dal greco e dal latino, anche un po’ troppo al liceo classico, questo è un aspetto che si può anche blandire, ma non capisco assolutamente che si debbano togliere dai linguistici, dagli scientifici e dai tecnici alcune materie: in maniera più sintetica bisogna comunque raccontare da dove veniamo”.
Qualche cambiamento positivo?
“Abbiamo avuto anche degli ottimi cambiamenti, l’arrivo dei computer è stato fondamentale e non si può dir male di un’invenzione del genere, è stata molto importante per la scuola, non soltanto adesso per motivi di necessità: ci sono dei portali che mettono a disposizione moltissime informazioni in breve tempo, permettono di approfondire e spaziare nelle materie. Chiaramente non bastano per una formazione completa ma sono una facilitazione notevole. Anche per quanto riguarda gli scambi tra i ragazzi e tra loro e i professori la tecnologia è stata molto utile”.
Lei cosa ne pensa della didattica a distanza?
“Che purtroppo non possiamo fare altro, cosa vuole che le dica? Di per sé la didattica a distanza non porta quasi nessun vantaggio”.
Perché?
“Ha presente cosa dicono i cristiani della messa? La messa è un evento collettivo, non si va a messa da soli, il bello e l’importante della messa è la coralità, cioè essere tutti insieme con il sacerdote che sta compiendo un miracolo ogni volta che alza l’ostia. Lo stesso vale per la scuola: tutti insieme, con l’insegnante che sta compiendo un piccolo miracolo lì davanti, mettendo a disposizione l’umanità e il mondo. La scuola non può essere tout court tra uno che parla e chi ascolta, non avrebbe senso”.
Potremmo dire che è il minore dei mali?
“La didattica a distanza è un rimedio, una panacea, e per fortuna che c’è. Però la scuola perde l’80% del suo valore, perché non è fatta solo di nozioni, non è soltanto insegnare cosa è stato detto e fatto, la scuola è stare insieme: dirsene di tutti i colori, volersi bene, baciare una ragazza o un ragazzo, pettegolezzi, la birra bevuta insieme, sono queste cose che contano per i ragazzi. Ora non si possono più fare, quindi manca la base, il senso della scuola. La skolè greca, dove tutti giravano con Aristotele e Platone, quando l’insegnamento era ambulante, con gli studenti al seguito, quella è la scuola, non la nozione che si impara al momento”.
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Si sente molto parlare di cosa ci lascerà questa pandemia quando sarà finita: lei cosa ne pensa? Anche per quanto riguarda il mondo dell’istruzione, crede che impareremo qualcosa?
“Non lo credo, lo spero. Questo è un altro discorso complicato che si dovrebbe fare, qualcuno lo inizia ma nessuno lo finisce mai: gli insegnanti italiani sono trattati come la serie B, gente che usiamo perché ci serve e che deve restare ai nostri ordini. Molti genitori, e anche la società, pensano così, come se gli insegnanti fossero dei lacchè al servizio della cultura. E questo è vergognosamente falso, non ha nessun senso. Gli insegnanti sono fior di persone colte e se venissero a mancare sarebbe uno sfacelo, una distruzione, ci troveremmo con dei ragazzi senza un’educazione, prima di tutto emotiva, che è quella fondamentale, e poi anche cognitiva, non potrebbero avere entrambe le cose nemmeno dai genitori, nemmeno da un insegnamento su un libro o da uno schermo e il ruolo degli insegnanti è quello: sono trattati malissimo in Italia, sottopagati, considerati in maniera insufficiente e come mediocrità, mentre se andiamo in Francia gli insegnanti sono tenuti sul palmo di una mano, perché sono la crème dell’educazione dei figli”.
Non ci si rende conto dell’importanza del loro ruolo?
“Ma io credo che ci si renda anche conto di questo, ma la vita di oggi è così incasinata che i genitori hanno da lavorare, da fare altre cose, li affidano agli insegnanti perché se la sbrighino loro. Non tutti i genitori, per fortuna ci sono quelli che capiscono che non funziona così, che bisogna lavorare insieme, che il genitore deve avere fiducia e stima dell’insegnante, cosa che purtroppo capita poco, perché di solito i genitori correggono gli insegnanti, anche senza sapere perché e per come. Questo non funziona”.
Se potesse dare un consiglio a tutti gli insegnanti cosa vorrebbe dire loro?
“Non ne hanno bisogno, gli insegnanti italiani sono i più bravi del mondo, io lo dico continuamente. Non devono fare voli, la dignità dell’insegnante è amare il suo mestiere e farlo al meglio possibile, poi se uno ha la disposizione per fare altro può fare delle cose diverse ma non è indispensabile o obbligatorio. Agli insegnanti direi solo di tener duro perché quello che succede a loro succede in tutta Italia; tengano duro e con tutti i miei auguri, perché insegnare è difficile”.
E agli studenti?
“Direi che la cosa importante dovendo lavorare con sistemi telematici è farlo in gruppo, non uno alla volta, singolarmente: facciamo una chat con più persone dove possa intervenire chi vuole, in cui si apra un dialogo che non sia soltanto unilaterale, dal professore agli studenti. Deve essere sempre qualcosa di corale e collettivo. Noi dobbiamo piegarla la tecnologia, non piegarci, e penso che tutti lo sappiano benissimo, si tratta di un mezzo non di un fine, quindi dobbiamo usarlo come conviene a noi”.
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Qual è il suo ricordo più bello da insegnante?
“Ne ho così tanti, in tanti anni non è possibile sceglierne uno solo. La festa d’addio forse è il più bello perché è anche il più triste, il più malinconico e il più alto, perché in una festa di addio vengono fuori tutti gli affetti: quando sono andato in pensione sono venuti anche ragazzi a cui avevo insegnato anni prima e abbiamo fatto una grande festa, abbiamo cantato, abbiamo pianto. È un po’ retorico se vogliamo però mi piaceva così, dava una certa soddisfazione, un piacere”.
Una bella conclusione per i suoi giorni in classe, insomma.
“Sì, poi ricordo quando prendevo le difese dei ragazzi contro qualche cosa, contro qualcuno. Ricordo anche un episodio bellissimo, di molto tempo fa”.
Ci racconti.
“Sono stato difeso da due ragazzi in una situazione strana, non era a scuola ma nel quartiere dove abitavano e io avevo subito una rapina da quelle parti. La solita rapina per strada, loro avevano visto la cosa e si sono buttati come dei falchi sul rapinatore e l’hanno fatto scappare. Credo fossero i primi anni ottanta, ma è stato bellissimo. C’era un rapporto di piena fiducia e questo è l’importante, perché la fiducia si costruisce lentamente. Una classe che non ti dà fiducia o tu che non dai fiducia a una classe è uno sperpero di tempo e di spazio, non serve a niente. Dev’esserci una fiducia non cieca, perché si controlla sempre, però deve esserci una base sostanziale di fiducia tra un insegnante e i suoi studenti”.
Nota: la foto in alto è di © Fabio Leidi.