Nelle librerie “troviamo tante storie semplici e lineari, come sceneggiature di film non ancora scritti…”. La riflessione della scrittrice Helena Janeczek, secondo cui si è creato “una sorta di circolo vizioso: più siamo preoccupati che la gente non abbia più voglia né tempo per leggere, più ci affanniamo a rendere la lettura un’esperienza ‘semplificata’. Così spesso rafforziamo l’orizzonte d’attesa che dai libri si aspetta talmente poco che, alla fine, ne può volentieri fare a meno…”

Nel corso di un’intervista pubblicata da ilLibraio.it in occasione dell’uscita del suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (Guanda), in cui Helena Janeczek ha ripercorso la figura della prima fotografa di guerra caduta sul campo, la giovanissima Gerda Taro, la scrittrice ha riflettuto, tra le altre cose, sul ruolo e sul senso della letteratura in un’era dominata dall’immaginario delle serie tv, in cui i dati sulla lettura di libri continuano a essere scoraggianti, e in cui molti libri sembrano “sceneggiature di film non ancora scritti”.  Qui di seguito riproponiamo, per gentile concessione dell’autrice, la sua risposta integrale a una delle domande dell’intervista.

 di Helena Janeczek

“La fotografia fissa un attimo ed è come se scavalcasse il tempo. La letteratura, anche se arranca oggi nel competere con tutte le narrazioni per immagini (anche film e serie tv), nella sua astrattezza – piccoli segni neri su un supporto bianco – ha la capacità di giungere dove il visibile non arriva. Con il nostro mezzo, così povero, noi scrittori possiamo prenderci delle libertà enormi. Un libro può tratteggiare l’evoluzione dei personaggi alla pari delle serie tv più acclamate. Ad esempio, ho finito in questi giorni Exit West di Mohsin Hamid (Einaudi, 2017): con una narrazione semplice come una favola, riesce a creare uno dei libri più forti e letterariamente belli sull’emigrazione di questi anni; con due protagonisti comuni, Saeed e Nadia, tratteggiati in modo perfetto; e con il ricorso al fantastico che rende ancor più spaventosa e reale l’attualità. Uno scrittore può fare in centocinquanta pagine ciò che, tradotto in film, richiederebbe dei mezzi tecnici e delle risorse produttive spaventose.

Inoltre c’è un’altra differenza sostanziale: la letteratura richiede l’immaginazione, per qualsiasi tipo di racconto (realista o fantastico che sia), mentre il mondo sovraffollato dalle immagini tende a impoverire la capacità di immaginare, che porta con sé non solo il vedere, ma anche il sentire, perché richiede la collaborazione del lettore nell’elaborare le parole sulla carta.

Non voglio sostenere il primato della letteratura, ma mi sembra che oggi tenda spesso a perdere fiducia nelle sue potenzialità: troviamo tante storie semplici e lineari, come sceneggiature di film non ancora scritti. Perché dovrei dedicare dei giorni a leggere un libro che non mi dà nulla in più di un film che posso gustarmi in due ore, per giunta in buona compagnia? Temo si sia creato una sorta di circolo vizioso: più siamo preoccupati che la gente non abbia più voglia né tempo per leggere, più ci affanniamo a rendere la lettura un’esperienza ‘semplificata’. Così spesso rafforziamo l’orizzonte d’attesa che dai libri si aspetta talmente poco che, alla fine, ne può volentieri fare a meno. Ecco, penso sinceramente che non facciamo, alla lunga, un buon servizio alla sopravvivenza della letteratura se non cerchiamo di coltivarla in tutte le sue forme – lineari o complesse – che la rendono un piacere o un arricchimento insostituibili”.

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