Il terremoto come evento psichico duraturo e implacabile, carsico, insidioso. Che, come ha distrutto un giorno le case e le vite, continua a minare qualcosa nella mente. Parte da questa premessa, dalla constatazione che si tratta di un tema poco affrontato dalla letteratura (con alcune eccezioni, anche contemporanee), la riflessione di Mario Baudino su ilLibraio.it: l’occasione è l’uscita di “Rombo” di Esther Kinsky, dedicato al sisma che colpì il Friuli nel 1976. Romanzo, sì, ma scritto tra testimonianza, inchiesta e saggio botanico-geologico, da un’autrice pluripremiata in Germania

Il terremoto, nel suo essere non solo devastante ma anche intimamente spaventoso, nel suo insediarsi nel ricordo, nel diventare, dopo il disastro naturale, una sorta di incubo che accompagna chi è scampato, sprofonda magari negli anni ma a tratti imprevedibilmente ritorna con un’immediatezza dolorosa, il terremoto come evento psichico duraturo e implacabile, carsico, insidioso, che come ha distrutto un giorno le case e le vite continua a minare qualcosa nella mente, ebbene sarà per queste ragioni o chissà magari per una difficoltà obbiettiva, ma è fra i temi meno affrontati dalla letteratura.

Del terremoto – dei terremoti – si scrive sostanzialmente poco. Ci sono alcuni testi canonici, beninteso, almeno a partire dal poema di Voltaire (trascureremo per ora Plinio il Vecchio) dedicato al sisma che rase al suolo nel 1756 la capitale portoghese (il Poema sul disastro di Lisbona), scritto sulla base di resoconti e con un intento filosofico. Ricalca il classico topos letterario del “naufragio con spettatore”: “Lisbona è distrutta e a Parigi si balla. Tranquilli spettatori, spiriti intrepidi, dei fratelli morenti assistendo al naufragio, voi cercate in pace le cause dei disastri, ma se avvertite i colpi avversi del destino, divenite più umani, e come noi piangete”.

Si dovrebbe anche ricordare a questo proposito il Candide, quanto alla follia religiosa e inquisitoriale che segue l’evento.

Ma per venire ai nostri anni, e sempre guardando alle conseguenze più che al fatto in sé, ci sono invece i romanzi di Nadia Terranova (Trema la notte, sul terremoto di Messina), Carlo Sgorlon (L’isola di Brendano, uscito postumo nel 2020), Giuseppe Lupo (La sposa di Palmira) e persino qualche pagina di Stefania Auci nei suoi Leoni di Sicilia; o ancora, se pensiamo al Giappone, terra per eccellenza di terremoti, si possono citare almeno Haruki Murakami e Lura Imai Messina: questi, in un legame più stretto, di realtà vissuta almeno in parte e non studiata o ricostruita attraverso testimonianze. È però significativo che chi ha avuto l’esperienza diretta tenda per lo più a non parlarne. Se lo fa, c’è una sorta di comune denominatore nel nucleo profondo dei ricordi: un boato sordo che sale dalla terra, il “rombo”. Chi l’ha ascoltato non lo dimenticherà mai.

Rombo è appunto il titolo del romanzo di Esther Kinsky, appena pubblicato da Iperborea (nella traduzione di Silvia Albesano), in corsa per lo Strega europeo, dedicato al terremoto che colpì il Friuli nel 1976; e se ci siamo dilungati in una lunga premessa un motivo c’è: questo libro, romanzo sì ma scritto tra testimonianza, inchiesta e saggio botanico-geologico da un’autrice pluripremiata in Germania, sembra aver ben conscia la difficoltà di cui si parlava prima, e di volerla sfidare – con risultati di indubbio interesse.

Esther Kinsky vive o ha vissuto in un piccolo centro del Friuli (non lo nomina ma si intuisce che dovrebbe essere la Val Resia, sotto il Monte Canin), fra gente di montagna abituata a una dura vita a contatto con la natura e anche col ricordo in qualche caso dell’emigrazione in Germania.

Attraverso otto testimoni va alla ricerca di quel rombo che tutti hanno udito, del momento in cui, all’improvviso – preceduto sì da segnali allarmanti, ma riconosciuti per tali solo a posteriori – arrivò dalla profondità della terra il colpo inatteso, sconosciuto, distruttivo.

Esther Kinsky, foto di Heike Steinweg

Esther Kinsky (nella foto di Heike Steinweg)

In quella zona non ci furono morti, solo danni anche molto gravi, e dal racconto della scrittrice emerge bene come lo sconcerto, il panico, la grande disgrazia si risolvono in breve nella solidarietà e nel tentativo un po’ precipitoso di rimettere il più presto possibile le cose a posto.

Il terremoto del Friuli durò a lungo, fra alti e bassi, fino a settembre, e dette luogo com’è noto a una ricostruzione ordinata ed anzi esemplare, che fu all’origine non solo di una rinascita ma di un vero boom economico.

La Kinsky, inseguendo il “rombo”, sembra voler cercare però qualcosa di atavico; è interessata semmai alla vita dura di allora e non tanto a quella presente, assai più prospera; a una civiltà contadina, soprattutto, che impercettibilmente è mutata.

Il suo è in un certo senso un romanzo elegiaco, dove affiorano le antiche leggende di una comunità che parla un dialetto – una lingua – del tutto particolare, di origine slava, e in cui si accampano figure fiabesche dal mostro Ornolac, personificazione del terremoto stesso, alle streghe, a esseri mitologici come la Riba Faronika; dove ciascuno ha il suo maiale chiuso in una stambugio sotto casa per essere macellato di anno in anno; dove le capre sono importanti anche più delle vacche, e si coltivano campi di aglio o di erbe medicinali, mentre nelle gabbie appese alle verande cinguettano lucherini e verdoni cui il terremoto restituirà la libertà, o darà la morte. Il canto degli uccelli in gabbia è più melodioso, perché è infinitamente triste, scrive l’autrice. E analogamente, dai personaggi che raccontano la loro storia, spira una sorta di cauta malinconia. Rombo sembra un elogio dell’accettazione. E c’è una attenzione particolare – e ammirata – alla forte impronta comunitaria del villaggio.

Intorno un paesaggio quasi sacrale, con le montagne, i boschi, le varietà botaniche che crescono su prati e scarpate – tutto raccontato in una sorta di bulimia seriale -, i torrenti che corrono verso il Tagliamento: che assumono nella descrizione attenta, minuta, insistita, un significato quasi metafisico, come le placche tettoniche in movimento nel profondo.

Si potrebbe parlare di una metafisica geologica, il che potrebbe suonare come un ossimoro; ma forse è il risultato della tensione alla ricerca del cuore della vicenda: quel “rombo” che è stato sì udito ma che la scrittrice deve farsi descrivere, avvicinare per tentativi. La Kinsky mette così insieme, e con sapienza, tutti gli indizi, i serpenti che si arrotolano su se stessi, le capre spaventate che cercano rifugio dietro la mangiatoia, il caldo eccessivo della giornata in cui tutto accadde, lo strano silenzio intorno. Il rombo arrivò sul far della sera senza che si capisse da dove, venne dal suolo, dal cielo, dalle montagne, fu come il materializzarsi improvviso d’un boato nato dal nulla; cambiò tutto e in un altro senso non cambiò nulla.

Ci fu chi lo sentì in casa, prima che le stoviglia andassero all’aia e di muri piovessero intonaco e calce, chi era seduto fuori e vide alberi, case e cose preda di un incomprensibile vortice; chi quella notte – non nella stessa valle, ma poco lontano, e anche per molte altre successive – dormì in una tenda, disteso a terra, e ne venne invaso perché saliva, tra i sussulti, e penetrava nel suo corpo. La scalata della Kinsky a un’esperienza vissuta con caratteristiche forse inafferrabili rappresenta senza dubbio una buona approssimazione.

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