Con uno stile da pieno minimalismo, i racconti dell’autrice e sceneggiatrice americana, pubblicati nel 1986 e ora riproposti in Italia, portano alla scoperta di una nuova famiglia infelice: i Vincent – L’approfondimento

Nove racconti, una famiglia: questi gli ingredienti che compongono Scimmie, raccolta del 1986 che mette insieme testi in origine pubblicati separatamente da Susan Minot, costituendo il suo esordio nella narrativa (e che viene ora riproposta in Italia da Playground nella traduzione di Bernardo Anselmi).

Un’autrice il cui nome potrebbe non dire nulla a primo impatto ma che, oltre a vincere il Prix Femina in Francia per la letteratura straniera l’anno successivo alla pubblicazione, vanta una notevole carriera da sceneggiatrice (vale la pena ricordare tra gli altri film Io ballo da sola di Bertolucci).

Del resto, il taglio quasi cinematografico della sua scrittura è evidente nell’approccio descrittivo che caratterizza anche le opere non destinate al grande schermo: una lenta carrellata di primi piani, un brutale ritratto scenico dell’essenziale – da fedele osservatrice che lascia parlare i personaggi senza aggiungere dettagli esornativi non necessari.

Susan Minot

I nove racconti accompagnano una coppia della borghesia americana e i sette figli in un excursus cronologico lungo più di un decennio, in cui agli scorci silenti di un matrimonio fallimentare si incastrano le complesse dinamiche del rapporto genitori-figli, i primi tormenti adolescenziali, l’alcolismo con i suoi effetti devastanti, il lutto e i suoi complessi meccanismi di elaborazione. Nel ricreare il contesto di umana lotta per la sopravvivenza che è la famiglia, Susan Minot lascia ai suoi personaggi il compito doloroso di passarsi il testimone: ognuno con il suo piccolo dramma incastonato in un’infelicità generalizzata.

Susan Minot - nella foto di Jean Pagliuso

Susan Minot – nella foto di Jean Pagliuso

Ripresi nel passaggio dall’infanzia all’età adulta, i sette ragazzi sono l’immagine vivente di una speranza che finisce per arrendersi sotto i colpi della realtà:

Ogni volta che tornavano dall’università, o dopo le vacanze estive, vagavano per la casa. Lo facevano tutti, in solitudine, da una stanza all’altra, riprendendo dimestichezza con gli oggetti più familiari. Toccavano la piccola Madonna in pietra, prendevano in mano il fermacarte a forma di farfalla. Nell’astuccio d’argento delle sigarette ritrovavano una viglia o un bottone. Provavano ad azionare l’accendino in pietra di giada che puzzava di gas, senza aspettarsi che funzionasse, cosa che infatti non succedeva. Ma c’era sempre la sensazione che potesse succedere. Le cose potevano andare in modo diverso. Si poteva ritrovare quel che si era smarrito. [Il blues delle feste]

La narrativa di Minot si struttura come focus su dettagli apparentemente insignificanti e sull’emotività a tratti esasperata e soffocata dei personaggi: entrambi i canali lasciano trapelare il vissuto mai espressamente raccontato della famiglia Vincent – ed entrambi richiamano inevitabilmente i pilastri del grande minimalismo americano. Un’etichetta che l’autrice ha sempre rifiutato di appiccicare alla sua opera, ma che indubbiamente, per stile e tematiche, le calza a pennello.

Scene di vita quotidiana, liti familiari inesplose, tensioni sedate a forza si caricano quindi di un malessere sedimentato per tutta una vita:

Non era più come se fosse apparso per un istante e poi fosse svanito. In quel momento la sensazione era diversa: il demonio era sceso in picchiata ed era atterrato sul tavolo della loro cucina, deciso a rimanerci per sempre. [L’incidente]

Con la sua scrittura misurata e potente Susan Minot presenta a lettrici e lettori una nuova famiglia disfunzionale che riscatta se stessa e i propri mali sotto il segno di una solidarietà “di sangue” che unisce più di quanto il dolore separi.

“Non è penoso… noi e basta?”
“Che intendi” ha detto Caitlin. “Siamo una famiglia.”

[Il vincolo matrimoniale]

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