“Tradurre non è solo, come diceva Calvino, il vero modo di leggere un testo. È anche una formidabile scuola di scrittura”. Silvia Pareschi è una delle più note e apprezzate traduttrici dall’inglese. In occasione dell’uscita de “I jeans di Bruce Springsteen”, su ilLibraio.it riflette sul suo percorso da traduttrice. E su quello, più recente, da autrice: “E’ cominciato un altro viaggio, quello dalla scrittura-traduzione alla scrittura-scrittura – e ritorno…”

«Non ti viene mai voglia di scrivere un libro tuo?». È una domanda che negli anni mi sono sentita rivolgere spesso, nelle interviste e agli incontri sul mio mestiere di traduttrice.

La risposta era sempre no. No, dicevo, perché il confronto con i grandi autori che traduco sarebbe schiacciante. No, perché anche se l’italiano è il mio mestiere, e ogni giorno ci lavoro, ci gioco, mi ci diverto e ci sbatto la testa contro, un libro non è fatto solo di lingua e stile, ma anche di un contenuto, di qualcosa da dire. E io non ero pronta per avere qualcosa da dire.

Il mio rapporto con gli Stati Uniti è cominciato come il sogno di un’adolescente, quando a sedici anni ho trovato (forse) i jeans di Bruce Springsteen. Si è smarrito per un po’ nella ricerca di altri scopi, altre direzioni, e poi si è definitivamente rinsaldato quando ha assunto la dimensione di un lavoro. La letteratura americana è diventata l’assidua compagna delle mie giornate, il materiale su cui mi cimento con i ferri del mestiere del traduttore. Il mio italiano si è intrecciato con l’inglese, lo ha sbrogliato, spianato, ricreato e quindi trasformato, di nuovo, in italiano. Nel corso di questo processo ho dialogato, a volte di persona, a volte a distanza, a volte solo nella mia mente, con gli autori che traducevo, sono entrata nei loro mondi, nelle famiglie problematiche di Jonathan Franzen, nella comunità dominicano-americana di Junot Díaz, fra i soldati americani in Vietnam di Denis Johnson e quelli in Iraq di Phil Klay. Ho incontrato gli stili precisi e raffinatissimi di E. L. Doctorow, di Amy Hempel, di Julie Otsuka. Ho tradotto classici americani come Don DeLillo e inglesi come Nancy Mitford. Ho ammirato da vicino l’intelligenza di Zadie Smith e di Jamaica Kincaid. Ho anche avuto il grande piacere di tradurre mio marito, Jonathon Keats.

Tradurre non è solo, come diceva Calvino, il vero modo di leggere un testo. È anche una formidabile scuola di scrittura.

Però mi mancava ancora qualcosa da dire.

La terza fase del mio rapporto con gli Stati Uniti si è inaugurata quando ho cominciato a passare lunghi periodi a San Francisco, la città di mio marito. Dalla fase del mito a quella della professione a quella della vita concreta, rimanendo sempre nella condizione di osservatrice coinvolta ma nello stesso tempo distaccata, perché il mio compito, il mio mestiere, è fare da tramite, da ponte fra due lingue e due culture, e posso continuare a svolgerlo solo mantenendo una fondamentale alterità rispetto alla cultura di partenza, in questo caso quella americana.

La curiosità (una delle doti necessarie per svolgere il mestiere del traduttore), il gusto per l’osservazione del dettaglio che ho imparato dai grandi scrittori che ho tradotto, nonché la fortuna di trovarmi in un posto indubbiamente interessante («la prossima volta la sfido a scrivere un libro ambientato a Busto Arsizio», mi ha detto un lettore durante una presentazione del mio libro in quella città. Busto Arsizio non la conosco, però vivo sul lago Maggiore, che ha ispirato scrittori illustri come Piero Chiara e Vittorio Sereni) hanno cominciato a convincermi che forse avevo trovato qualcosa da dire.

E così è cominciato un altro viaggio, quello dalla scrittura-traduzione alla scrittura-scrittura – e ritorno.

I ferri del mestiere li avevo già in saccoccia, ma ora dovevo usarli per fare un lavoro completamente diverso: non più la trasposizione da una lingua all’altra di una materia prima già lavorata e raffinata, bensì la trasformazione di un materiale profondamente familiare – perché mio – dallo stato grezzo di pensiero a quello raffinato di pagina scritta. Molto più faticoso di quanto immaginassi. I pensieri sfuggono, non si lasciano imbrigliare facilmente, sembrano chiarissimi quando sono in forma di lampi, di immagini, di intuizioni, ma poi sulla pagina si depositano sgraziati, hanno bisogno di tanto lavoro di lima, anche più di quello che necessitano i pensieri già sgrezzati degli altri.

Eppure era una fatica appagante, quando – e in questo la scrittura è identica alla traduzione – arrivava finalmente la parola unica e perfetta, quella che corrispondeva con esattezza al pensiero e alla sensazione che stavolta appartenevano a me, anziché all’autore o all’autrice da tradurre.

Un’altra domanda che ora mi viene rivolta è: «Quanto sei stata influenzata nella tua scrittura dagli autori che hai tradotto?». Moltissimo, spero. E non solo da loro. Non a caso, al Calvino maestro di limpidezza e precisione ho affiancato in queste righe la metafora dei ferri del mestiere dei grandi Fruttero e Lucentini. Così, nella mia valigetta dei ferri del mestiere ci sono voci e stili che ho restituito nella loro individualità quando si trattava di tradurli, ma che, al momento di scrivere, si sono amalgamati alla mia voce per aiutarmi a tradurla sulla pagina.

Alla fine, per me, scrivere non è stato altro che tradurre me stessa.

Copertina I jeans di Bruce Springsteen e altri sogni americani

L’AUTRICE – Ne I jeans di Bruce Springsteen (Giunti) Silvia Pareschi ci accompagna in un viaggio coast-to-coast alla scoperta di un’America strana e bizzarra. L’autrice è una delle più note e apprezzate traduttrici dall’inglese. Fra i tanti autori da lei tradotti ci sono Jonathan Franzen, Don DeLillo, Cormac McCarthy, Zadie Smith, Jamaica Kincaid, Junot Díaz. Vive tra San Francisco e il lago Maggiore, dove è nata, insieme al marito, l’artista e scrittore Jonathon Keats. Quando è a San Francisco, oltre a tradurre, insegna l’italiano agli americani e racconta le sue esperienze nel blog Nine hours of separation.

Libri consigliati