Scrivere un romanzo fatto interamente di dialoghi, come se fosse un copione, un verbale, una trascrizione, è un fatto abbastanza raro. In questa “non-tradizione” (e che pure affonda le sue radici in quella lunga e feconda linea che dal dialogo socratico arriva a Jacques il fatalista di Diderot) si inserisce l’ultimo romanzo di Cormac McCarthy, “Stella Maris”. Un libro segnato da una fredda, claustrofobica staticità dei personaggi. Per certi versi, è il postremo infinite jest di uno dei più grandi scrittori americani di tutti tempi…

Scrivere un romanzo fatto interamente di dialoghi, come se fosse un copione, un verbale, una trascrizione, è un fatto abbastanza raro: c’è l’indomabile Gaddis, che sul dialogo ha costruito molti dei suoi romanzi; c’è Mr. Mani di Yehoshua, fatto quasi tutto di dialoghi, o Les fruits d’or di Nathalie Sarraute fatto molto di dialoghi. Ma interamente di dialoghi ci sono riusciti (con successo) in pochi: Il bacio della donna ragno di Manuel Puig, I vostri padri, dove sono? E i profeti, vivono forse per sempre? di David Eggers, e non molto altro.

In questa non-tradizione (e che pure affonda le sue radici in quella lunga e feconda linea che dal dialogo socratico arriva a Jacques il fatalista di Diderot) si inserisce l’ultimo romanzo di Cormac McCarthy, Stella Maris (Einaudi, traduzione dall’inglese di Maurizia Balmelli).

Leggendo Stella Maris continuamente davanti ai miei occhi tornava il lunghissimo piano sequenza in cui Bobby Sands parla con un sacerdote nella sala ricevimenti di una prigione in Hunger di Steve McQueen. Non perché il romanzo sia particolarmente cinematografico – al contrario, è tutto pensiero e niente immagini – ma perché emergeva una simile atmosfera di desolazione dell’ambiente e di una costante tensione che non arriva mai a esplodere. Una stessa fredda, claustrofobica staticità dei personaggi.

In Stella Maris non succede praticamente nulla, è il libro sul nulla di McCarthy, ma si parla di tutto (e questo è il suo difetto più grande).

Direttamente collegato al precedente The passenger (in Italia Il Passeggero), con il quale costituisce un perfetto dittico, Stella Maris è composto dai dialoghi che Alice Western, l’unico vero personaggio femminile della lunga carriera di McCarthy, intrattiene con un tale Dr. Cohen, che a mala pena pone delle domande, restando una figura del tutto marginale, un mero pretesto per dare libero sfogo alla mente di Alice, internata volontariamente all’ospedale psichiatrico che dà il titolo al romanzo.

Stella Maris di Cormac McCarthy

Stella Maris, per certi versi, è il postremo infinite jest di McCarthy: ormai lontano dalla violenza ancestrale, epica, inconscia dell’America, abbandonato il tono patinato di Sulla strada, l’ultima parola di uno dei più grandi scrittori americani di tutti tempi è affidata al ragionamento filosofico di una donna geniale e malata (la malattia mentale è una malattia, ripete Alice continuamente) in un libro che non sappiamo se e fino a che punto dobbiamo prendere sul serio. Per certi versi Alice, infatti, incarna i grandi temi filosofici che hanno impegnato la riflessione di McCarthy degli ultimi decenni: la natura del linguaggio, dell’inconscio (il problema di Kekulé, come intitola un suo noto saggio sull’argomento), la matematica, la fisica quantistica; aggrovigliandosi nei suoi discorsi, costruiti molto spesso attraverso dei ragionamenti che procedono per antitesi, sul rapporto fra percezione soggettiva, coscienza umana e esistenza del mondo là fuori; sulla natura dei numeri; sull’impossibilità di razionalizzare l’esperienza estetica della musica, fatta di note che “non corrispondono praticamente a niente ma come mai una disposizione particolare di queste note possa influenzare così profondamente le nostre emozioni resta un mistero che va addirittura oltre ogni speranza di comprensione”.

Il livello filosofico si mescola, senza soluzione di continuità, a altri due macrodiscorsi principali che si costruiscono tramite le parole di Alice: il racconto dei “personaggi”, così li definisce, con cui convive durante le sue allucinazioni, e che non sono nient’affatto figure oniriche in quanto coerenti “in ogni dettaglio”; e il racconto del proprio passato e in particolare della propria famiglia.

I tre livelli si confondono e spesso si giustificano a vicenda: così l’ossessione per la violenza e la morte come tema di riflessione (“Non penso che ci siano dei modi per prepararsi alla morte. Bisogna inventarsene uno. Non c’è nessun vantaggio evolutivo nell’essere bravi a morire”) si lega inevitabilmente alla figura del padre, scienziato coinvolto nel progetto Manhattan (“uno dei fatti più significativi nella storia dell’umanità”) e a quella del fratello Bobby, protagonista del romanzo precedente, che Alice crede in punto di morte. Allo stesso modo il tema amoroso è raccontato attraverso il filtro della malattia (“Molto probabilmente l’amore è di per sé un disturbo mentale”) e a quello autobiografico tramite l’ammissione di un profondo desiderio incestuoso (che è forse una delle parti più riuscite del romanzo).

La voce di Alice si muove in continuazione fra questi tre livelli del discorso, senza volersi mai assestare, cambia continuamente argomento: è come, appunto, se fosse una strategia di fuga, di sviamento: “Io credo nella fuga”, confessa a un certo punto la donna al suo intervistatore. E il punto del romanzo sta proprio qui: nella voce narrante che è oggetto di uno studio condotto dall’uomo che la intervista. E la voce narrante è dichiaratamente, e per sua stessa ammissione, affetta da un disturbo mentale. Ma soprattutto imbroglia e si prende gioco dell’uomo col registratore.

Molti dei dialoghi che Alice pronuncia sono discorsi scimmiottati, irrealistici, affettati, e seppur molto spesso rispecchiano le idee di McCarthy, sarebbe sbagliato mettergli in bocca al suo autore. Sono pronunciati da una donna iperconsapevole e malata (e che forse non desidera di essere curata). “A volte non capisco se dice sul serio”, ammette il dr. Cohen, e lo ripete più d’una volta: “Non so bene se sia un commento serio o no”. “Lo so”, risponde Alice, “Io nemmeno. Cosa vuole che le dica? Sono una ragazza moderna”. E non lo sappiamo nemmeno noi lettori: sappiamo solo che Alice parla in continuazione per fuggire.

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