“Stranieri a noi stessi”, saggio di Rachel Aviv, indaga – attraverso il racconto di cinque “menti inquiete” – il ruolo della disuguaglianza sociale nella cura del disagio mentale negli Stati Uniti. Tra le cinque “menti inquiete” c’è anche l’autrice, ricoverata a sei anni per anoressia. L’approccio saggistico è puntuale ma insolito, empatico e pieno di cura: dalla scelta delle parole al disegno di ogni personaggio…

Questo pezzo – dedicato a Stranieri a noi stessi (Iperborea, traduzione di Claudia Durastanti) potrebbe facilmente iniziare così, come da quarta di copertina: “Rachel Aviv ha solo sei anni quando viene ricoverata con una diagnosi di anoressia”.

L’intervista che l’autrice del libro – la stessa Rachel Aviv – ha rilasciato alla sua traduttrice italiana Claudia Durastanti su La Stampa, però, ci invita a iniziare da un’altra parte: “Volevo essere una presenza senza essere tutto. Per me è stato un esperimento per staccarmi un po’ dallo stile New Yorker“, per cui Aviv scrive con successo, “e riconoscere che potevo essere un filtro, una specie di medium”. 

E allora partiamo da qui: Stranieri a noi stessi è un saggio che – attraverso il racconto di cinque “menti inquiete” – indaga il ruolo che la disuguaglianza sociale ha nel trattamento e nella lettura del disagio mentale negli Stati Uniti.

L’approccio dell’autrice è saggistico, ma in un modo estremamente insolito, empatico.

Stranieri a noi stessi

Intanto: Aviv parte, appunto, da se stessa. Il prologo è la sua storia di presunta anoressica più giovane d’America”.

Il racconto della sua esperienza suona come una dichiarazione d’intenti: diventa il campione per le storie successive, modello della metodologia che l’autrice applicherà lungo l’intera sua opera. La storia della piccola Rachel, infatti, non ha niente di voyeuristico ma è, piuttosto, un’attenta ricerca delle parole giuste per “dire” il disagio mentale, specialmente di fronte a una bambina che non conosce il significato di “anoressia”: “Non avevo mai sentito parlare di anoressia. Quando mia madre mi riferì la diagnosi, la parola mi suonò come una tipologia di dinosauro“.

Per tutti cinque i profili, la ricerca di Aviv si alterna e si rafforza citando studi e ricerche e raccogliendo informazioni dai diari dei suoi protagonisti, dalle loro poesie, dai blog e da memorie inedite. Nel prologo, in particolare, le parole prese in prestito sono quelle del diario di Hava, una ragazza più grande ricoverata nella stessa clinica di Aviv e che lei arriverà a idolatrare. 

La vita adulta di Hava – il cui corso prenderà pieghe prevedibilmente tristi – sarà anche l’epilogo di Stranieri a noi stessi, a chiudere un cerchio abitato anche da Ray, Bapu, Naomi e Laura.

Ray Osheroff era un nefrologo di quarantuno anni caduto in disgrazia. Aveva fondato una clinica specializzata in dialisi che nei primi tempi aveva ottenuto un grande successo, ma non molto più tardi aveva iniziato a vacillare pericolosamente. “Nelle cartelle mediche, lo psichiatra di Ray, Manuel Ross, scriveva che Ray soffriva di ‘una forma di melanconia'”.

Poi c’è Bapu, una casalinga bramina che decide di ritirarsi da una relazione familiare tossica per sposare il misticismo indù. Una scelta di salvezza per lei, “abbracciare la follia come segno di devozione”; una diagnosi di schizofrenia per la sua famiglia.

Naomi, invece, è una madre nera single del Minnesota, condannata per omicidio dopo essersi gettata nel Mississippi con i suoi gemelli neonati. A guidare il suo gesto era stata la certezza che assassini razzisti le stessero dando la caccia. A guidare il suo futuro sarà la ricerca del perdono da parte dei figli.

E infine Laura, una matricola di Harvard intrappolata nella vita di uno sconosciuto. La diagnosi, per lei, sarà quella di disturbo bipolare. La cura, l’assunzione di diciannove diversi tipi di farmaci nel corso di quattordici anni di vita.

Le storie che Aviv sceglie di raccontare ci restituiscono una fotografia chiara del rapporto tra psichiatria ed etnia negli Stati Uniti. Insieme, ci illustrano i limiti e l’evoluzione della moderna pratica psichiatrica, attraversando la solitudine, lo smarrimento e la maginalizzazione razziale.

Ray e la sua storia, per esempio, ci parlano dei due approcci – all’epoca concorrenti – alla malattia mentale, quello freudiano e quello farmaceutico. Nel 1979 – quando Ray era ricoverato nel prestigioso Chestnut Lodge, nel Maryland – la psicoanalisi era ancora predominante. Negli anni Novanta, invece, la depressione sarà ampiamente considerata il risultato di uno squilibrio chimico, visione ancora oggi molto discussa.

Laura e Naomi, invece, ci dicono che – negli Stati Uniti – la depressione delle donne nere tende a essere ignorata e non curata, mentre quella delle donne bianche, specie se ambiziose come Laura, rischia di essere eccessivamente trattata a livello farmacologico. 

Stranieri a noi stessi è un saggio coraggioso, che maneggia ogni parola con cura e che tratta la malattia mentale con il rispetto e le delicatezza che meritano le cose complesse. Rachel Aviv non giudica mai. Piuttosto, si concede il tempo per osservare, ascoltare e leggere e – solo dopo – disegna un percorso che possa facilitare anche la nostra di comprensione.

In ultimo, la lettura di Stranieri a noi stessi è un’occasione preziosa per conoscere un approccio alla psichiatria e al disagio mentale diverso da quello italiano e da quello europeo. Di nuovo a Durastanti, Aviv ha raccontato: “In Olanda mi hanno ringraziata per il mio coraggio, perché nel libro dico che prendo l’antidepressivo Lexapro da vari anni. Qui da noi, dire che prendi il Lexapro è come dire che prendi l’antidolorifico per il mal di schiena. È stato sorprendente notare che un gesto così banale potesse assumere una patina confessionale, di coraggio e rivelazione”.

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Fotografia header: Rachel Aviv, foto di Rose Lichter-Marck

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