ilLibraio.it ha incontrato Tom Drury, mentre in Italia è finalmente in corso la pubblicazione della sua opera. Lo scrittore ci parla di un’America rurale fatta di rapporti interpersonali e piccoli avvenimenti e, tra le altre cose, nel corso dell’intervista riflette sull’importanza delle scuole di scrittura creativa…

Tom Drury è esattamente come uno se lo aspetterebbe: un uomo con il viso buono e una camicia a pois un po’ più larga del dovuto senza per questo essere trasandata. Lo scrittore è stato a Milano per il tour di presentazioni di La fine dei vandalismi, appena pubblicato in Italia grazie a NN Editore, ma uscito negli Stati Uniti oltre vent’anni fa, nel 1994. Il romanzo è il primo volume della Trilogia di Grouse County e segue le vicende della comunità di una piccola contea del Midwest. È una vicenda corale, nonostante la presenza di tre protagonisti molto forti, dove tutti gli abitanti di Grouse County hanno il loro spazio: l’orfano Quinn, appena nato e già al centro dell’attenzione, o Albert musicista ribelle (per quanto lo si possa essere in un posto in cui il massimo segno di dissenso è dipingere abusivamente la cisterna dell’acqua) innamorato della studentessa in scambio internazionale Chiang.
Tom Drury fa entrare in scena una pletora di personaggi, e di ciascuno si occupa con dedizione, fosse anche solo per una frase di tre righe, in modo tale che la loro presenza nell’economia della trama non sia mai ingiustificata. Piccoli eventi e piccoli legami si intrecciano in una storia più ampia, i cui protagonisti – tutti, nessuno escluso – vengono raccontati con empatia e comprensione mai pietistiche.

Abbiamo intervistato Tom Drury per scoprire come intende la scrittura questo straordinario interprete del Midwest e dei rapporti interpersonali.

La fine dei vandalismi di Tom Drury

La fine dei vandalismi è stato pubblicato nel 1994 e racconta di un Midwest rurale in lento disfacimento. Tuttavia i suoi personaggi, mentre tutto intorno a loro lentamente crolla, continuano la loro vita come se nulla fosse cambiato. Se avesse scritto lo stesso libro oggi, a più di vent’anni di distanza, le vite dei suoi personaggi sarebbero state simili o sarebbero comparse problematicità diverse?
“È una domanda difficile a cui rispondere perché dopo questo libro sono tornato agli stessi personaggi nel 2000 e nel 2013 [con gli altri due volumi della Trilogia di Grouse County: A caccia di sogni e Pacifico, entrambi di prossima pubblicazione per NNE; N.d.A.], quindi ho già visto in che modo sono andate avanti le loro vite. Ma sono sicuro che se scrivessi la stessa storia di La fine dei vandalismi oggi, questa sarebbe molto diversa, perché sono io stesso a essere una persona differente e uno scrittore differente. In ogni caso sono contento di aver tenuto traccia di quello specifico periodo e di aver potuto continuare a scrivere di questi personaggi e seguirli mentre invecchiavano”.

Leggendo La fine dei vandalismi non si avverte l’eco dei “grandi fatti del mondo”, nonostante la disgregazione di Grouse County non sia altro che il riflesso dei cambiamenti più complessi del mondo circostante. Gli unici fatti rilevanti, per i suoi personaggi, sono questioni di ordine locale, e la politica entra nel romanzo solo al momento dell’elezione del nuovo sceriffo (ma anche in questo caso contano molto di più le persone dei partiti). Tenere fuori il discorso politico è una scelta autoriale o la naturale conseguenza dell’ambiente di provincia dei suoi personaggi?
“A me interessa soprattutto scrivere le storie dei singoli individui e mi sembra che la politica nel tipo di mondo rappresentato da Grouse County sia qualcosa di remoto, che resta distante. Quello che conta di più per me è mostrare come Dan, Louise, Tiny, Mary e tutti gli altri personaggi si relazionino tra di loro semplicemente come ‘persone’. Quello che succede alla Contea è il risultato di forze economiche più grandi, ma penso che il lettore possa fare autonomamente questa associazione: io, in un contesto narrativo, preferisco parlare delle persone e delle loro vite”.

Nel suo romanzo compaiono a più riprese riferimenti alla fede, ma si tratta quasi sempre di una fede acritica, trasmessa da predicatori poco credibili. Sembra che la religione sia utile soltanto per dare un senso a delle vite che si svolgono sempre uguali a se stesse. Dunque, che ruolo ha la religione nella struttura della trama?
“Noi tutti viviamo senza poter dare una risposta alle ‘grandi domande’: qual è la causa primaria dell’esistenza? La vita ha un senso? Esiste il libero arbitrio o le nostre vite sono predeterminate? Queste domande non hanno una risposta, possono solo essere formulate, e io credo che vengano poste anche all’interno del mio romanzo. La Chiesa, nella mia storia, nonostante voglia essere di reale supporto alla comunità, spesso non riesce a esserlo. E la stessa cosa, nel romanzo, accade anche per quanto riguarda la maggior parte delle istituzioni che vi compaiono. Quando le cose diventano difficili, e nel romanzo lo diventano, soprattutto a un certo punto, Louise e Dan possono contare solo l’uno sull’altro, come persone”.

Alcuni articoli evidenziano un’assenza di trama nel suo romanzo in favore di un racconto più corale. Posta la pluralità di voci, però, si intuisce invece una trama molto evidente, con due protagonisti principali, Dan e Louise, e un coprotagonista secondario, Tiny. La linea narrativa che segue la coppia ha una struttura lineare in cui a un avvenimento – il loro fidanzamento e poi matrimonio – segue una crisi – la morte della bambina e l’allontanamento di Louise – e una conclusione – il ritorno di Louise. Mentre parallelamente seguiamo il percorso di redenzione di Tiny, che da scapestrato cerca un suo posto nel mondo. Aveva pianificato la coralità del romanzo e la trama più lineare è scaturita automaticamente dalle storie, o al contrario aveva in mente questi tre personaggi principali e li ha poi circondati da tutto il microcosmo di provincia in cui si muovono?
“Sì, avevo in mente questi tre personaggi e sapevo che il romanzo sarebbe stato impostato sulla relazione tra Dan e Louise e sul percorso individuale di Tiny. Come hai notato, la relazione tra Dan e Louise inizia, si sviluppa, affronta una crisi, e alla fine c’è una sorta di risoluzione della crisi. Quindi effettivamente c’è un’evoluzione della trama, ma allo stesso tempo succedono diverse cose sullo sfondo, e credo che quello che accade agli altri personaggi si rifletta anche sulla situazione di Louise e Dan, non causando particolari effetti ma intrecciandosi alla loro vicenda”.

In La fine dei vandalismi, trama, personaggi e territorio sono un unicum indissolubile. Quanto è importante per uno scrittore scrivere di qualcosa di cui ha esperienza, che si tratti di sentimenti, interazioni o luoghi?
“Non direi che valga la stessa cosa per tutti gli scrittori, ma per me è certamente importante avere in mente un luogo che sia profondamente impresso nella mia memoria. Da questo punto di vista, scrivere la storia della comunità di Grouse County è stato molto naturale, perché io stesso sono cresciuto in una piccola città di un’area rurale. Ho usato questi posti come palcoscenico per la mia storia, poi però gli eventi che vi si svolgono sono inventati. Insomma, il background è reale, si possono trovare centinaia di luoghi uguali nel Midwest rurale, ma quello che accade nel romanzo è immaginario. Ed è proprio questa per me la parte divertente dello scrivere: inventare gli avvenimenti e le vicende che succedono ai miei personaggi”.

Lei ha pubblicato in diverse riviste letterarie e ha insegnato scrittura creativa: che ruolo le sembrano avere le riviste letterarie in America? Sono una palestra letteraria valida anche per scrittori alle prime armi o è un medium che vale solo per autori con alle spalle una minima professionalità?
“Le riviste letterarie secondo me sono un posto per ogni tipo di autore, per quelli esordienti e per quelli affermati. E spero siano in realtà più utili ai lettori, piuttosto che agli scrittori: sorprendentemente sembra che le persone vogliano davvero leggere narrativa! Voglio dire: guarda quante persone ci sono qui!”. [Ci troviamo a Milano alla fiera dell’editoria italiana Tempo di libri; N.d.A.]

E per quanto riguarda le scuole di scrittura e il loro proliferare? Trova che siano davvero utili per un aspirante scrittore?
“Personalmente, in passato ho partecipato al programma di scrittura creativa della Brown University e mi è stato davvero molto utile. Nei cinque anni precedenti avevo lavorato come giornalista, quindi avevo bisogno di un periodo di transizione nel mondo della scrittura creativa e quel programma mi ha consentito di fare un percorso con alcuni grandi insegnanti e svariati corsi molto buoni. Quindi sì, per me frequentare una scuola di scrittura è stato molto d’aiuto”.

Invece, per un giovane scrittore che decide di non seguire un percorso didattico, è possibile avere ugualmente consapevolezza della propria scrittura e trovare visibilità?
“È sicuramente possibile: una scuola di scrittura può essere d’aiuto, ma non è assolutamente necessaria. Certo, avere un paio di anni da dedicare esclusivamente alla narrativa è una cosa buona: le scuole di scrittura hanno buoni programmi, incoraggiano e forniscono modelli da seguire, e passare così tanto tempo a leggere, scrivere e discutere insieme è utile. Però è sbagliato pensare che uno scrittore possa evolvere positivamente solo in questo modo. La scrittura si sviluppa nelle modalità e nei frangenti più disparati”.

Un’ultima domanda: c’è un autore in particolare che suggerirebbe a dei giovani aspiranti scrittori?
“Ai corsi di scrittura che ho tenuto la primavera scorsa negli Stati Uniti, ho consigliato sempre i libri di Mary Robison. Amo molto la sua scrittura e so che gli studenti possono trovare nelle sue opere uno stile diverso dal solito”. [L’unico titolo di Mary Robison disponibile in italiano è la raccolta di racconti Dimmi, Minimum Fax 2004; N.d.A.]

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