In “Tre tuoni” l’autrice argentina Marina Closs narra tre storie di donne, piene di voglia di libertà, di violenza e di sesso. Una è quella di Vera Pepa, giovane della comunità indigena dei guaraní che partorisce due gemelli in un luogo in cui, partorire due gemelli, significava aver tradito il proprio marito. L’altra è la storia di Demut: quindici anni e un rapporto incestuoso con il fratello. L’ultima è quella di Adriana, che scopre la sua sessualità con tutta la curiosità che conosce. In mezzo, una lingua dura e senza censure…
A leggere Tre tuoni (gran via, traduzione di Amaranta Sbardella) si sta scomodi. Per oltre centoventi pagine è quasi impossibile stare fermi: si cambia in continuazione posizione sulla sedia. Si sciolgono le gambe, poi si accavallano di nuovo, poi ancora a scioglierle.
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I “tre tuoni” scritti da Marina Closs sono tre storie di donne.
La prima è quella di Vera Pepa, o Gran Monte.
“Mi chiamo due volte, mi chiamo due cose, una in guaraní e l’altra semplice, Vera Pepa. Non lo parlo bene il guaraní, ho perso l’abitudine. Ho avuto un figlio all’ospedale. Ho cominciato a vagabondare. Quando sono partita da lassù ero giovane, tanto”. Vera Pepa è una giovane della comunità indigena dei guaraní. Da ragazzina voleva essere libera e, così, si è sposata. “La donna sposata se ne va da casa, la sua, quella dove è nata, quella che non sopporta più. Si vogliono sposare tutte, anche se non sanno quello che fanno”. Il marito di Vera Pepa è morto nel giorno in cui lei è stata violentata da un altro uomo. In cima a quel monte che la donna porta nel nome. Per quella violenza, Vera Pepa è rimasta incinta di una gravidanza gemellare. “La madre dei gemelli, in realtà, ha avuto due uomini. Due nello stesso anno, un marito e un altro. Uno è stato con lei per concepire un figlio, il secondo per l’altro”. Secondo le antiche credenze guaraní, infatti, la donna che partorisce due gemelli è una donna che ha tradito il marito. Così, quella di Vera Pepa è una storia ai margini. Una storia di solitudine e di stigmi senza empatia.
Poi c’è Demut: quindici anni e una vita di fame e miseria in Germania. Per salvarsi, Demut parte con il fratello alla volta del Sud America, ma parte come moglie, non come sorella.
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“«Quello che facciamo è proibito?»
Lui, mentre mi baciava: «No».
Io mi mettevo a ridere, sollevata. Gli baciavo la nuca e gli mentivo all’orecchio.
«Sono felice di salire su quella nave, di viaggiare come tua moglie».
In realtà non ero felice. Non mi piaceva mettere piede sulla nave. Desideravo nel profondo calpestare la terra.
Lui mi aveva giurato che la nostra unione non era proibita. Solo dopo mi hanno detto che lo era. Ma io non avevo colpe di quello che eravamo stati. Quando ci siamo innamorati quasi morivamo di fame”.
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Il fratello di Demut da lei voleva un figlio. Era consapevole, lui, della gravità del loro rapporto incestuoso, ma nel raccontarlo alla sorella piccola cercava di dirlo normale. Lei, cosa voleva essere non lo sapeva. Forse libera. Forse sempre lontana.
Infine, c’è Adriana, che ricama abiti per il teatro e studia arte. Adriana sta scoprendo la sua sessualità e si muove tra gli uomini con curiosità e desiderio di sperimentazione.
“Quella notte, prima di baciarmi, mi toglie i pantaloni e mi infila un dito nella vagina. Io respiro a fondo, mi abbandono all’indietro, lo abbraccio.
«Ah» esclama lui, «ti piace». Io non so che fare e lo bacio.
«Adriana, ti va se continuiamo a vederci?» «No»”.
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I Tre tuoni sono loro, potenti e spaventose come un temporale. I Tre tuoni sono tre monologhi, tutti raccontati in prima persona, con una forma più vicina a quella orale che a quella scritta. I Tre tuoni hanno parole che non hanno paura di essere pronunciate. Non vengono addolcite le violenze, non vengono censurati i tabù, come se dire avesse un potere catartico.
Non è un libro facile quello scritto da Marina Closs, ma è un libro che ci presenta un mondo a cui quasi mai guardiamo. E approfittare delle occasioni rare, è spesso una scelta saggia.
L’autrice argentina non alleggerisce quel mondo, non lo digerisce per noi, ma ce lo offre. Seguirla vuol dire attraversare un temporale senza avere riparo, ma uscendone con la sensazione chiara di aver fatto esperienza di un momento di pura vita.
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