L’anno della pandemia raccontato in “Tredici lune” da Alessandro Gazoia (neo-direttore editoriale di Nottetempo). Il protagonista è un editor, è l’autore, che ragiona su meccanismi collettivi trovando soluzioni individuali… – L’approfondimento

«L’”inquadratura allo specchio” rappresenta un momento di frattura e sdoppiamento, grazie al quale l’artificio della messa in scena si manifesta nello spettatore nel momento in cui egli s’immerge nella personalità (sovente scissa) del protagonista.»

(Thomas Elsaesser, Malte Hagener, Teoria del film, Einaudi, 2009.
Traduzione italiana di Fulvia De Colle e Rinaldo Censi)

Nessun 9 marzo sarà più lo stesso, d’ora in avanti.
Riportando alla memoria fatti accaduti decenni prima, asseconderemo il desiderio e assieme la repulsione di ricordare, di non tacere nulla; ogni 9 marzo saremo daccapo. All’inizio per un intero giorno, poi per sempre meno tempo daremo alla celebrazione del massimo disagio collettivo vissuto dal secondo dopoguerra una connotazione più lucida e più distante. Useremo un concetto, “distanziamento“, con meno disagio, meno apprensione.

Gazoia_Tredici lune

Cucineremo dettagli per sfamare le generazioni future, fino ad addentrarci nella costruzione di un gigantesco altare collettivo, fatto di voci opposte, a volte sicure altre titubanti, che grideranno il “noi” oppure solo un “io” e ogni parte avrà un posto, reciterà un detto, completerà il racconto.

La voce narrante di Tredici lune di Alessandro Gazoia (Nottetempo, 2021) non aspetta il 9 marzo, né il primo, né quelli che verranno. Vuole raccontare da subito, si infila con le sue incertezze e le sue risoluzioni nel principio del ricordo, nella prima parola, nel primo momento e anzi: lo fa proprio nascere con un’intenzione scritta.

Segue le ore, i giorni, e il protagonista, un Ale che si nomina da solo una volta, quasi per sbaglio, comanda l’occhio di bue, leggendo le circostanze e ragionando su ciò che accade, fra un decreto governativo e l’altro, fra la paura dell’apocalisse e la precarietà del continuare a esserci e della testimonianza.

Ale fa luce su ciò che crede opportuno – e per contrario regala l’ombra a ciò che non gli occorre – e sancisce in questo modo la versione più partigiana possibile, il punto di vista soggettivo esposto a una e una sola possibilità di racconto della pandemia in cui stiamo (ancora) vivendo e si circonda di microdemie, come puntualizzazioni, spine laterali del racconto principale. Ogni personaggio che si mette in mezzo alla storia di Ale è vivo nel presente, come Ale stesso, crede scarsamente nel futuro, allo stesso modo del narratore, ma fa parte di un collettivo che Ale osserva e in cui non entra.

Il protagonista è un editor, è l’autore, una persona che professionalmente è abituata a trattare con le storie, quelle degli altri che si specchiano in vari modi nella sua, e non fa fatica ad ammettere, appena entra in scena: “Mento e non mi accorgo di farlo”. Questo spiattellamento della sua natura di narratore è un atto che rimanda al lettore e lo costringe a domandarsi da che parte stare praticamente all’istante, senza nemmeno il tempo di una virgola.

Ale cerca di sgarbugliare una realtà veramente accaduta – la sua, la nostra, simile a quella di milioni di altri individui – in cui siamo immersi.

Il racconto nasce per raccontare i fatti, uno dopo l’altro spesso senza pause, perché non c’è tempo di fermarsi, di tirare un sospiro e raccogliere le idee. Nel giro di poche settimane si passa dall’ottimismo della primavera all’indecisione dell’estate, da parziali visioni del mondo – di una vita sola, di un occhio solo, di un punto di vista unico, quello di Ale editor che fa visita a sua madre o parla al telefono con i suoi autori – a fantomatiche rinascite collettive.

L’io prova a diventare noi ma non ci riesce e nel ripercorrere tutti i motivi per cui non ci riesce ogni volta recita un compromesso e il carico di realtà che ci ritorna indietro, in una celebrazione continua, è insieme la nostra ma non è la nostra, è quella di Ale e di Elsa, poi di Ale da solo, poi ancora di Ale e sua madre o di Ale e il Sindaco. È una corsa a due quasi sempre e noi siamo spettatori, diventiamo pubblico, collettivo, siamo forse le microdemie della storia ed è a noi che il protagonista si rivolge, contro cui dissente, da cui spera di essere compreso.

La presa di posizione della menzogna nell’incipit definisce una cornice del discorso che suscita al tempo stesso un sorriso e un sospiro. Entrambi durano poco, perché il racconto inizia dove sono stati la maggior parte degli italiani il 9 marzo 2020: faccia al pavimento, sbattuti contro una quotidianità nuova e incomprensibile che li ha messi di fronte a contraddizioni numerose e inconsapevoli, forse inevitabili. Il protagonista di Tredici lune è l’emblema ora di un lavoratore in telelavoro, ora di un lavoratore in cassa integrazione, ora di un uomo che ha dovuto salutare un amore, Elsa, improvvisamente e per un tempo proiettato al futuro che forse non esiste – gli viene il dubbio che non esiste e noi sappiamo come è andata a finire fuori dalla storia e fuori dal libro, come possiamo biasimarlo?

Alessandro Gazoia/Ale ragiona su meccanismi collettivi trovando soluzioni individuali e, essendo il protagonista senza certezze, creato nell’anno in cui le definizioni sono diventate labili e il mondo a cui eravamo abituati si è mosso fuori asse, si ritrova senza possibilità, se non quella di raccontare dove si trova: in un circolo chiuso e soffocante, che prende l’abbrivio e accelera, diventa un piccolo mulinello, si infuria e poi si quieta, torna indietro molte volte, sperando di fare un passo avanti, fino a un finale irrequieto, come irrequieto è il racconto del protagonista di Un anno con tredici lune di Rainer Werner FassbinderTredici lune e Alessandro Gazoia ci lasciano il dubbio di dove (e se) siamo davvero arrivati.

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