“Prima di criticare questo tipo di ‘immersione’ e di oblio del mondo, dovremmo forse porci una domanda scomoda: non si tratta forse di un meccanismo abbastanza simile a quello che viene attivato anche dalla lettura?”. Su ilLibraio.it Gino Roncaglia analizza il fenomeno Pokémon Go, anche storicamente, e lo collega a una riflessione sul futuro dei libri. L’esperto di digitale si chiede: “Ci sarebbero gli stessi dubbi se giochi basati sulla realtà aumentata fossero ambientati in una biblioteca o in un museo, e anziché catturare inesistenti bestioline colorate il gioco ci portasse a scoprire libri o quadri?” – L’approfondimento

C’era davvero bisogno di parlare di Pokémon Go anche qui? Immagino che molti lettori abituali del sito scuoteranno la testa perplessi e avranno la forte tentazione di saltare a piè pari questo articolo.
Per provare a trattenerli, ho due armi. Primo, promettere che a lettura ultimata potranno capire un po’ meglio di cosa si tratta e avere qualche elemento in più per valutare quella che, piaccia o no, sarà probabilmente la moda dell’estate. Secondo (ma più importante),assicurare che un collegamento con il mondo del libro è possibile, ed è– credo – anche interessante.

Ma partiamo dalle basi. Pokémon Go, come ormai sanno quasi tutti, è un gioco per dispositivi mobili (in sostanza, per smartphone). Uno dei due ‘genitori’ di Pokémon Go è il gioco giapponese Pokémon, uscito in due diverse versioni (rossa e blu) nel 1996 per il Game boy, la console portatile prodotta dalla Nintendo che ha dominato il mercato videoludico mobile degli anni ’90.Nella seconda metà degli anni ’90 Pokémon ha avuto un enorme successo globale, trasformandosi in una vera e propria moda e dando vita a serie televisive, cartoni animati, gadget, e a un’infinità di altri giochi che integrano, proseguono o imitano quelli originali.

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Figura 1 La versione originale di Pokémon per Game boy, nelle due versioni blu e rossa

Pokémon non era ambientato nel mondo reale (come Pokémon Go) ma nella regione immaginaria di Kanto, e può essere a sua volta considerato come il risultato dell’integrazione di tre forme ludiche preesistenti:

1) il collezionismo. Obiettivo principale del gioco era collezionare tutte le 151 specie di Pokémon, ovvero ‘poketmonsters’, in una sorta di album virtuale denominato Pokédex; l’ideatore del gioco, Satoshi Tajiri, collezionava coleotteri, e non a caso i coleotteri sono una delle principali specie di pokémon;

2) i ‘collectable card games’ (CCG), popolarissimi alla metà degli anni ’90 – dunque proprio all’epoca dell’uscita del primo Pokémon –grazie al successo di Magic: The Gathering.I CCG sono basati su carte raffiguranti in genere creature, oggetti o incantesimi di un universo immaginario; ogni carta indica, anche attraverso valori numerici, le caratteristiche di forza, resistenza ecc. del personaggio, dell’azione o dell’oggetto raffigurato; con un meccanismo derivato dei giochi di ruolo, tali caratteristiche influenzano i risultati delle fasi di ‘combattimento’, mentre la possibilità di scambiare le carte permette a ogni giocatore di costruire la propria raccolta, cercando di acquisire le carte più rare e ‘potenti’;
3) l’idea della ‘caccia al tesoro’ su territorio, che era già passata fin dagli anni ’80 dal mondo reale a quello virtuale dei videogiochi, molti dei quali includono in qualche forma un meccanismo di ‘raccolta’ spesso basato sulla ricerca di oggetti particolarmente rari o di valore, da utilizzare poi nelle fasi successive del gioco.

La struttura narrativa del primo Pokémon è relativamente semplice: esplorando Kanto, il giocatore rosso – un bambino di 10 anni, chiara indicazione dell’età-target del gioco – incontra il professor Oak (diventerà il professor Willow in Pokémon Go), che lo invita ad aiutarlo nella raccolta e nello studio dei Pokémon, compito in cui il professore è già aiutato dal nipote, il giocatore blu. La rivalità fra giocatore rosso e giocatore blu (a ciascuno dei due corrisponde, come si è detto, una versione del gioco) è la base della successiva rivalità fra le tre squadre (rossa, blu e gialla) di Pokémon Go.

Nel gioco originale, ogni giocatore esplora Kanto cercando pokémon, catturandoli attraverso l’uso di una PokéBall, allenandoli e facendoli sfidare fra loro in apposite ‘palestre’ in modo da far crescere il loro livello, riempiendo man mano le caselle vuote del suo Pokédex, prima con i pokémon più deboli e più comuni, poi, auspicabilmente, con quelli più forti e più rari. Alcuni dei Pokémon catturati, se fatti salire adeguatamente di livello, possono evolvere, trasformandosi in specie più sviluppate e potenti dello stesso genere. I diversi Pokémon sono caratterizzati dall’appartenenza a tipologie (acqua, aria, fuoco, coleotteri…) che influenzano gli esiti degli scontri diretti (ad esempio, i pokémon d’acqua sono favoriti nei combattimenti con i pokémon fuoco). Nonostante i combattimenti, il mondo pokémon non è particolarmente violento: gli scontri avvengono in una palestra, il pokémon sconfitto non muore ma risulta solo indebolito, e il giocatore può facilmente ‘curarlo’ riportandolo alla forza iniziale.

Gli elementi dell’universo Pokémon che abbiamo sommariamente ricordato tornano in Pokémon Go ma sono accompagnati da un fattore completamente nuovo, l’ambientazione nel mondo reale. Ed è qui che troviamo il secondo dei ‘genitori’ di Pokémon Go a cui abbiamo fatto riferimento in apertura. Si tratta di un altro videogioco, lontanissimo dall’universo Pokémon: Ingress.

Ingress è stato il primo videogioco a larga diffusione basato sulla realtà aumentata; la tipologia esatta, secondo Wikipedia, è augmented-reality massively multiplayer online location-based game: un gioco on-line aperto a un numero indefinito di utenti e basato sul collegamento fra luoghi reali del mondo fisico e luoghi virtuali del mondo del gioco.

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Figura 2 Ingress: una delle schermate del gioco (l’equilibrio fra illuminati e resistenza)

Lanciato per Android nel 2012 dalla Niantic – azienda all’epoca direttamente affiliata a Google – e rilasciato in seguito, nel 2014, anche per iOS, Ingress è un gioco assai più sofisticato e complesso di Pokémon. La sua struttura narrativa è basata su una premessa fantascientifica: nel mondo del gioco i fisici del CERN cercando il bosone di Higgs hanno scoperto particelle di un nuovo tipo, denominate ‘Exotic Matter’ (XM), che sembrano collegate a entità aliene: i ‘plasmatori’ o Shapers. L’umanità reagisce alla scoperta dividendosi in due fazioni: gli ‘Illuminati’, che vedono nella Exotic Matter e negli Shapers lo strumento per evolvere verso uno stadio più avanzato, e la ‘Resistenza’, che invece vuole difendere l’umanità dall’influenza degli Shapers. Il giocatore sceglie in avvio del gioco la fazione alla quale desidera appartenere, e le due fazioni si confrontano cercando di controllare i ‘Portali’, luoghi di concentrazione della Exotic Matter e che corrispondono nel mondo reale a luoghi di particolare rilievo storico, culturale o sociale: ad esempio edifici pubblici, monumenti, biblioteche (sì, ci sono anche le biblioteche!).

Spostandosi fisicamente nel mondo reale, il giocatore vede sul proprio smartphone una mappa della zona che lo circonda (basata su Google Maps), nella quale sono inclusi i portali e i dati sulla densità di XM. Proprio come in Google Maps, la localizzazione del giocatore – quando si trova all’aperto – è rilevata con precisione dal GPS dello smartphone. Avvicinandosi nel raggio di 45 metri a un portale, il giocatore può agire su di esso cercando di guadagnarne il controllo alla propria fazione e/o acquisendo o utilizzando una serie di oggetti utili allo svolgimento del gioco.

Non entrerò qui nel dettaglio, assai complesso, degli oggetti e delle azioni possibili (per darne solo un’idea, è possibile equipaggiare i portali con Risonatori e Mod, infettarli con un virus, collegarli fra loro…). Ingress è chiaramente un gioco con un target assai diverso rispetto a quello di Pokémon: ha conquistato un discreto numero di appassionati ma è sempre stato sostanzialmente un gioco per nerd, anche se è probabile che il successo mondiale di Pokémon Go porterà nuovi adepti anche al suo più sofisticato progenitore.

Come il lettore avrà forse intuito, Pokémon Go prende da Ingress il meccanismo del location-based game e dunque il collegamento fra mondo fisico e mondo reale, e dall’universo Pokémon i personaggi e la cornice narrativa del gioco. I portali di Ingress diventano le palestre e i pokéstop di Pokémon Go, e il nuovo gioco associa a questi ‘luoghi’ per metà reali e per metà fittizi le descrizioni e le fotografie fatte dai giocatori di Ingress. La caccia ai pokémon si sposta dunque nel mondo reale, e l’uso della realtà aumentata permette di sovrapporre alle immagini del posto in cui ci troviamo, visualizzate attraverso la fotocamera dello smartphone, le immagini dei pokémon da catturare,delle palestre in cui farli allenare e combattere (e da conquistare alla propria squadra), o dei pokéstop in cui raccogliere PokéBall e oggetti utili.
Il movimento nella realtà fisica è una componente essenziale di Pokémon Go, tanto quanto lo era di Ingress: per trovare i pokémon bisogna esplorare luoghi diversi (i pokémon d’acqua si trovano più facilmente vicino a fiumi, laghi o al mare, quelli di roccia più facilmente in montagna, alcuni dei pokémon più rari compaiono più facilmente (o unicamente) in luoghi di particolare richiamo (Central Park, o – a Roma – il Colosseo…); le uova elargite talvolta da un pokéstop si schiudono solo dopo che il giocatore ha camminato per 2, 5 o 10 chilometri (a seconda della rarità del pokémon che contengono). E bisogna effettivamente camminare: a meno di non andare a passo d’uomo, gli spostamenti in macchina non valgono.

È certo lecito, e in fondo anche abbastanza facile, guardare con perplessità o disprezzo le legioni di adolescenti (e meno adolescenti) che durante l’estate vedremo muoversi apparentemente senza scopo o destinazione, con la testa china sul telefonino, immersi in un mondo solo tangenziale rispetto a quello reale, impegnati a catturare e collezionare animaletti immaginari dai nomi assurdi e dall’aspetto ridicolo. Così come era lecito prendere in giro, negli anni ’80, i nerd che passavano il loro tempo sui Commodore 64 e sui Sinclair Spectrum, o guardare preoccupati e sconsolati, negli anni ’90, i bambini completamente immersi nel loro Game boy (magari proprio nel mondo Pokémon originario), o – già ben prima del lancio di Pokémon Go – gli adolescenti dimentichi del mondo esterno e concentrati solo sullo schermo del loro cellulare.

Ma c’è, dietro al carattere immersivo di questi ambienti un meccanismo di quest che, anche quando non è esplicitamente narrativo o sofisticato, ha comunque una fortissima capacità motivazionale. A dimostrazione del fatto che il digitale non è necessariamente nemico della concentrazione: semmai, in molte occasioni, porta a una concentrazione estrema e talvolta eccessiva su un’attività, un programma, un gioco, una forma di interazione sociale particolare. Prima di criticare questo tipo di ‘immersione’ e di oblio del mondo, dovremmo forse porci una domanda scomoda: non si tratta forse di un meccanismo abbastanza simile a quello che viene attivato anche dalla lettura?

Si obietterà – certo a ragione – che la lettura è immersione in un mondo narrativo o argomentativo assai più complesso, ricco, sofisticato di quello di Pokémon. Ma è anche vero che la forza di questo argomento non sempre regge alla sbirciata del titolo del libro che sta leggendo il nostro vicino di ombrellone. E non sempre regge quando si prova a conoscere in maniera un po’ più approfondita il mondo dei videogiochi: la complessità strutturale e narrativa di alcuni titoli sfida assai spesso i giudizi troppo facili e liquidatori.

Pokémon Go è allora un gioco ‘intelligente’? No: è coinvolgente e (all’inizio) abbastanza divertente, ma tutto sommato è anche piuttosto stupido e ripetitivo. Però è solo un esempio (come abbiamo visto non il primo, e sicuramente non l’ultimo) di una tipologia di videogiochi dalle potenzialità notevoli. Già nella sua forma attuale, può essere uno strumento di scoperta. Per fare solo un esempio, vivo nella stessa casa quasi dalla nascita ma non ho mai saputo che nella strada accanto a quella di casa mia ci fosse una villa con decorazioni a tema marinaresco, che i giocatori di Ingress hanno denominato “villa dei Galeoni” e che è diventata un pokéstop in Pokémon Go. Sono passato davanti a quella villa centinaia se non migliaia di volte, avevo una vaga consapevolezza del fatto che avesse una fascia alta di decorazioni dipinte, ma non avevo idea del loro tema, e non le avevo mai veramente guardate.

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Figura 3 Pokémon Go: il pokéstop della Villa dei Galeoni a Roma

L’intreccio fra mondo del gioco e mondo reale permette insomma, volendo, di guardare anche al mondo reale con occhi nuovi. E se al posto del mondo di Pokemon ci fosse il mondo dei libri, e l’obiettivo fosse trovare e conoscere – nei ‘loro’ luoghi – personaggi della narrativa? Se giochi basati sulla realtà aumentata fossero ambientati in una biblioteca o in un museo, e anziché catturare inesistenti bestioline colorate il gioco ci portasse a scoprire libri o quadri? Se lo stesso spazio di un libro diventasse anche un ambiente in cui raccogliere informazioni o indizi? (Ma lo spazio di un libro non è forse già un ambiente in cui raccogliere informazioni e indizi? E il taccuino del lettore non è forse uno strumento per collezionarli?)

Non c’è, in questo, nulla di nuovo: applicazioni di questo tipo esistono già, anche se non hanno ancora il livello tecnico e le modalità d’uso della realtà aumentata proprie dei giochi della Niantic. Basti pensare, per fare solo un esempio italiano, ad applicazioni come la App di Appasseggio. E non serve disturbare Huizinga(ma è sempre utile leggerlo!) per ricordare che l’uomo è anche homo ludens, che il gioco è parte integrante del nostro essere, capace di fornire competenze e una palestra ‘protetta’ per sperimentarle, accompagnandosi e integrandosi progressivamente con la vita.

Faremmo bene insomma a non dimenticare che i videogiochi sono una delle forme contemporanee del gioco. Anche quando sono tutto sommato abbastanza stupidi (come abbastanza stupidi sono tanti giochi non digitali).

Nel mondo dei videogiochi, come in tanti altri, la sfida è la conquista o riconquista della narrazione complessa. Pokémon Go non rappresenta certo, da questo punto di vista, un esempio di assoluta eccellenza, ma è parte della storia, e forse avere almeno una vaga idea della sua natura e dei suoi meccanismi di funzionamento può aiutare a rendersene conto.


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