“Un magma indistinto di baci, abbracci, piedi nudi, mani che si toccano, labbra che si baciano, gente che si perde, si ritrova, scappa, ritorna, si guarda, fa l’amore, non fa l’amore…”. Eppure, nei testi dei brani in gara a Sanremo 2015, non mancano le eccezioni sorprendenti… Luigi Spagnol ha accettato di “leggerli” per IlLibraio.it

Dati Auditel alla mano, la metà degli italiani che ieri sera era davanti alla tv ha visto la prima puntata di Sanremo 2015. Grandi ascolti ma non solo, per il primo festival condotto da Carlo Conti, che ha dominato la scena sui social network, coinvolgendo anche il mondo del libro, a giudicare dai tantissimi tweet di scrittori, editori e addetti ai lavori. Non pochi, ovviamente, i commenti e le battute sui testi delle canzoni. A questo proposito, già nei giorni scorsi il critico letterario Gian Paolo Serino, tra gli altri, ha detto la sua su Twitter , scrivendo che il testo migliore, a suo avviso, è Sola di Nina Zilli. Ma, come sempre in questi casi, i pareri sono assai discordanti…

IlLibraio.it ha chiesto all’editore Luigi Spagnol, Ad del gruppo GeMS e, tra le altre cose, grande appassionato di musica, di analizzare i testi delle canzoni in gara quest’anno

di Luigi Spagnol

Fernanda Pivano, che di poesia capiva parecchio e certamente più di me, definì com’è noto Fabrizio De André il massimo poeta italiano vivente. È un’affermazione che può sconcertare, ha sconcertato e tuttora sconcerta molti cultori della poesia contemporanea; ed è, mi sembra, innegabile che i versi di De André (ne scelgo due a caso tra i molti che amo: “E tu che con gli occhi di un altro colore/ mi dici le stesse parole d’amore”) non reggano uno spietato confronto con, per esempio, l’opera di Luzi o di Caproni, scegliendo sempre a caso tra i grandi poeti italiani del secondo novecento.

Ma il fatto è che quel confronto non sarebbe solo spietato, sarebbe soprattutto scorretto, perché se a quei due versi di De André si aggiunge la musica per la quale, e forse a partire dalla quale, sono stati scritti (e sono certo che tutti coloro che stanno leggendo queste righe e conoscono la canzone la stanno già canticchiando), ecco che sì, il risultato è (indiscutibilmente, secondo me) una delle vette dell’arte italiana recente. E questo nonostante il fatto che nemmeno la musica, presa da sola, abbia l’ambizione di competere con i grandi capolavori del novecento. La grandezza, la magia, nascono dalla combinazione delle due.

Tutto questo preambolo per dire che non si dovrebbe mai giudicare il testo di una canzone senza la musica a cui è indissolubilmente legato, perché si tratterebbe di un’operazione scorretta, ingiusta e criticamente impropria. A volte, però, divertente. Ed è esattamente quello che mi accingo a fare con le canzoni di San Remo. Per non farmi mancare niente, aggiungerò che non ho alcuna autorità né autorevolezza per farlo.

Al primo colpo d’occhio appare evidente, tranne per un paio di eccezioni, il desiderio generale di scrivere testi con i quali si possa identificare il maggior numero di ascoltatori, ciò che credo sia considerato (a torto o a ragione, secondo me a torto) una conditio sine qua non per il successo.

Tale identificazione viene ricercata attraverso due strade maestre: una è raccontare delle storie piuttosto comuni, per non dire banali; l’altra è non raccontare assolutamente niente, limitandosi ad accostare immagini e frasi a effetto in libertà, senza alcuna connessione logica.

Alla prima categoria appartiene per esempio il testo della canzone Vita d’inferno di Mandelli e Biggio, una lamentazione nei confronti di ordinarie sventure quali non trovare parcheggio o pagare troppo al ristorante. Disgrazie molto comuni che definire “vita d’inferno” è una palese esagerazione, solo in parte giustificata dalla notevole rima con “utero materno” (mentre è davvero banale quella con “inverno”).

Anche in Un vento senza nome, Irene Grandi racconta una storia, premurandosi tuttavia di non definirne troppo i contorni, immagino sempre per favorire l’identificazione del massimo numero possibile di ascoltatori. E’ una storia di abbandono, che potrebbe essere una fuga come un suicidio, di una figlia come di un’amante o di un’amica. La mia mente corre a quel grande capolavoro di She’s leaving home dei Beatles, che senza lasciare possibilità di dubbio parla di una ragazza che abbandona la casa dei genitori, a dimostrazione della teoria che sia possibile raccontare storie anche più precise e avere comunque un discreto successo. Del resto, quanti di noi hanno cantato Michelle senza mai aver avuto una relazione con una ragazza francese, per non dire con una di nome Michelle?

Parlano di solitudine e di tristezza anche le canzoni di Nina Zilli (che infatti si intitola Sola) e di Malika Ayane (Adesso e qui). Non brillano forse per profondità di pensiero né per potenza delle immagini, ma mi sembrano buoni testi funzionali: non c’è una storia vera e propria, raccontano malinconie neanche troppo generiche a volte anche in maniera interessante, soprattutto in Adesso e qui (Si dice che domani/ sia il solo posto adatto per un bel ricordo, per esempio). Va detto che con le voci che si ritrovano, entrambe possono davvero permettersi di cantare quello che vogliono.

Quasi tutto il resto, ahimè, è un magma indistinto di baci, abbracci, piedi nudi, mani che si toccano, labbra che si baciano, gente che si perde, si ritrova, scappa, ritorna, si guarda, fa l’amore, non fa l’amore, senza che sia mai veramente possibile capire, per il povero ascoltatore (o lettore, nel mio caso) che cavolo stia succedendo: stanno insieme? Si sono lasciati? Si sono lasciati e si sono rimessi insieme? Stanno insieme ma tra poco si lasceranno? Stanno insieme, tra poco si lasceranno, ma poi si rimetteranno insieme?

Senza pretendere tanto, cioè capire addirittura di che stia parlando la canzone, ci sono volte in cui ci si accontenterebbe di capire anche solo  il senso di singoli passaggi: Ed è più dolce la paura se mi tieni in un tuo abbraccio/riesco a sentire anche il profumo della notte/ mentre continui a sorprendermi/ disegna una finestra tra le stelle da dividere col cielo/ da dividere con me/ e in un istante ti ho regalato il mondo (Annalisa – Una finestra tra le stelle). Oppure: L’amore è un fiore che se nasce non conosce inverno ed io ci credo/ ma credo anche a questo caos che diventa inferno perché lo vedo (Gianluca Grignani – Sogni infranti)

Che dicono? Ma soprattutto: che cosa si sono fumati?

Nonostante questa tecnica poetica, chiamiamola così, permetta qualsiasi libertà, alcuni autori riescono lo stesso a cadere in goffaggini logiche. Siamo fatti per amare/ nonostante noi/ siamo due braccia/ con un cuore, canta Nek in Fatti avanti amore. Mi permetto di notare che due braccia con un cuore sembrano una struttura abbastanza attrezzata per amare, i problemi potrebbero semmai nascere se si volesse fare altro. E quindi, perché dice nonostante? Avrebbe più senso “nonostante noi siamo due braccia senza un cuore”.

Anna Tatangelo (Libera) dice di Sorridere alla pioggia mentre bagna e cade, e poi di sentirsi unica/ come la luce della luna quando illumina. Ma perché, viene da chiedere, com’è invece la luce della luna quando non illumina? E ci sono volte in cui la pioggia bagna senza cadere?

La canzone di Moreno, Oggi ti parlo così, pur coltivando lo stesso disprezzo per la conseguenzialità narrativa della maggior parte delle altre canzoni (Zitto per zitto significa segreto/ dritto per dritto è un concetto concreto/ se vedi tutto fermo confermo sorpreso/ il tempo è sospeso) ha se non altro il pregio di sfuggire alla melensaggine generale. Stavo per dire che potrebbe ricordare la poesia futurista, ma poi per scrupolo sono andato a rileggermi Marinetti e non lo dico più.

La vera eccezione è il testo della canzone di Grazia Di Michele e Mauro Coruzzi, Io sono una finestra, un’eccezione che non può sorprendere chi nel corso degli anni è riuscito ad andare oltre l’apparenza della maschera di Platinette e a vedere far capolino l’intelligenza e la sensibilità dell’uomo che la indossa. Proprio della sua condizione e dei suoi dilemmi di identità parla la canzone, senza curarsi del fatto che saremo in pochi a identificarci letteralmente con la sua storia (ma l’uomo è un animale dotato della capacità di metafora, cioè di andare oltre la lettera, o no?) con un linguaggio che probabilmente non è quello della grande poesia, ma che potrebbe senz’altro essere quello della grande canzone.

Ho sempre pensato che ci volesse molto coraggio per apparire in pubblico con la parrucca bionda e il rossetto di Platinette. Ce ne vuole non tanto di meno a portare a San Remo un verso come Coscienza iconoclasta volgare e irriverente.

 

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