Tra i protagonisti del 44esimo Premio ITAS, Roberto Casati, filosofo cognitivista, autore de “La lezione del freddo”. Per Paolo Cognetti la sua “è una scrittura che colma una lacuna dell’editoria italiana, quella della nature writing” – Il reportage de ilLibraio.it dalla tappa finale della manifestazione dedicata a romanzi e saggi sulla montagna

“Quella di Casati è una scrittura che risente della sua esperienza internazionale e colma una lacuna dell’editoria italiana, quella della nature writing. Una scrittura che mi ha ricordato molto Henry David Thoreau. Per questo sono felice che il suo libro si sia aggiudicato il 44esimo Premio ITAS”.

Con queste parole Paolo Cognetti, trionfatore della passata edizione con le sue Otto montagne (Einaudi) ha passato il testimone a Roberto Casati, il filosofo cognitivista autore de La lezione del freddo – ancora una volta con Einaudi – vincitore nella sezione migliore opera di narrativa del concorso letterario dedicato alle opere sulla montagna. Nella cornice del Teatro Sociale di Trento, sono stati consegnati gli ambiti riconoscimenti dalla giuria presieduta da Enrico Brizzi e dal coordinatore del Premio, Lorenzo Carpanè.

A conquistare il primo premio come migliore opera non narrativa è stato l’alpinista scozzese Sandy Allan con La Cresta Infinita edito da Alpine Studio, mentre la migliore opera narrativa per ragazzi è andata a Séverine Gauthier e Amélie Fléchais con la delicata graphic novel L’Uomo Montagna (Tunué).

Tra le menzioni, Echi nel silenzio – Paesaggi della Grande Guerra dal Garda al Pasubio (Publistampa edizioni) libro fotografico del trentino Andrea Contrini, L’attraversamento invernale delle Alpi (MonteRosa edizioni) di Andrea Paleari per la sezione narrativa e Il peso delle ombre (Gabriele Capelli Editore) di Mario Casella per la sezione non narrativa.

Premio itas 2018 - Sandy Allan

“Attenzione, generosità, lentezza, Casati trasforma il freddo nella metafora del tempo perduto” si legge nella motivazione ufficiale che ha portato alla vittoria il professore milanese. “Non avrei mai pensato di venire ricompensato un giorno per un libro su montagne di cui non avevo mai sentito parlare, le White Mountains, alla frontiera tra Vermont e New Hampshire”, ha commentato lo scrittore, da anni negli Stati Uniti come docente universitario. “Montagne semplici ma bellissime, primordiali, che si erigono solitarie in un mare sconfinato di boschi”. Quei boschi che, come per Cognetti, gli hanno ricordato Thoreau e il suo Walden. “La vera lezione del freddo risiede nell’attenzione, nella capacità di riconoscere la ricchezza di forme e tracce fondamentali per la propria sopravvivenza. L’attenzione è il bene principale che abbiamo”, ha aggiunto. “Lungi dal voler dare io alcuna lezione, credo che sia stata quella di Thoreau e del suo stile di vita la migliore testimonianza di ciò che può riempire sul serio la nostra esistenza. Lo è stato per me e per tutta la mia famiglia: un immenso capitale di vita”. E pensare che il libro è nato da una tradizione tutta americana e un po’ anacronistica ai tempi dei social. “Alla fine di ogni anno si usa negli Stati Uniti, inviare ai propri amici un racconto di cosa sia successo durante gli ultimi dodici mesi: morti, matrimoni, nascite. Nel mio caso, trovandomi immerso in queste fredde ma splendide montagne, ne è scaturita una narrazione quasi fiabesca, sebbene quotidiana”. Quella quotidianità per cui Casati ha ringraziato i genitori e in particolare la madre che, fin da bambino, lo avevano abituato a trascorrere le vacanze e ogni fine settimana della sua infanzia e adolescenza all’ombra dei monti dietro casa: le Grigne, la Valtellina, un po’ di Dolomiti e molta Val di Cogne. D’altra parte la madre era cresciuta nello stesso cortile monzese in cui abitava Walter Bonatti. Casati è diventato un filosofo e non un alpinista. Ma la passione per le vette era comunque nel suo destino.

Chi invece ha fatto delle scalate l’essenza della propria vita è Sandy Allan. Nel suo libro racconta una straordinaria prova di resistenza e impegno ai limiti della sopravvivenza, una delle più recenti imprese alpinistiche: la prima salita, nell’estate del 2012, alla vetta del Nanga Parbat, uno dei più imponenti Ottomila, lungo la Mazeno Ridge, una cresta lunga dieci chilometri. “La straordinaria avventura dei sei alpinisti, raccontata da Allan in prima persona, ha colpito la giuria soprattutto per l’uso, sapientemente equilibrato, del tipico understatement inglese che rende la narrazione a tratti anche ironica e non autocelebrativa”, si legge nella motivazione. “Un ritorno a quella che i francesi chiamano récit d’ascension: l’ascensione, durata 18 giorni, tra le lame di ghiaccio della montagna nuda” ha evidenziato Enrico Brizzi. “È più difficile scalare queste vette o scriverne?” abbiamo chiesto ad Allan. “È più complicato scrivere, visto che sono sempre tra i monti” replica con la spontaneità che lo contraddistingue. “Era la prima volta che mi cimentavo con il racconto di una mia esperienza che non fosse per una rivista, eppure è stato più naturale del previsto. Ho riversato per giorni interi al pc tutte le sensazioni e i particolari di quelle giornate sul Naga Parbat e al termine mi sentivo quasi svuotato. Sono stato felice perché all’editore è piaciuto subito”. Mai prendersi troppo sul serio, anche se ci si trova letteralmente in cima al mondo. Si può riassumere così il mantra di questo scalatore 62enne. “Il mio dono è quello di saper controllare e accettare le emozioni. È fondamentale per quello che faccio. La mia passione per la natura e per la sua bellezza supera la paura del rischio. Certo, non posso esimermi dal fare dei calcoli ma una buona dose di fortuna non deve mancare”.

La montagna come impresa, come lezione, ma anche come metafora delle proprie origini. È questa l’accezione con cui Séverine Gauthier ha concepito, grazie alle illustrazioni di Amélie Fléchais, il suo Uomo Montagna. “La storia mostra sin dalle prime pagine l’addio che si consuma tra un nipote e un nonno, un lungo arrivederci che diventa anche invito ad intraprendere un viaggio per ritrovarsi ancora”, recita la motivazione, che prosegue: “L’opera è stata apprezzata tanto per la bellezza dei disegni quanto per la poeticità del racconto”. Dalle White Mountains del cuore americano di Casati alla “cresta infinita” pakitastana di Allan, con le due giovani autrici francesi l’ispirazione si sposta in Africa, di fronte alle cime etiopi. Ma ancora una volta alla base c’è un’esperienza personale. “Questa fiaba è nata a seguito dell’incontro con la mia figlia adottiva e il luogo in cui viveva. Non so se ho mai trovato le mie radici, ma con questo libro ho cercato di incrociare le mie con le sue” ci ha confessato Séverine Gauthier. “Le montagne rappresentano il nostro fardello, le nostre origini, ma anche le difficoltà della vita che ciascuno di noi, persino i bambini, deve imparare ad affrontare”. Questa è la prima graphic novel ad aggiudicarsi il Premio ITAS ma per la scrittrice non è un caso. “Si tratta di una forma di letteratura relativamente nuova e che non tutti sanno leggere. Mia mamma, ad esempio, fatica a districarsi tra le immagini. Eppure questo genere ha delle potenzialità enormi e una ricchezza che dovrebbe essere applicata anche ad altri ambiti della cultura e del sapere. E il suo crescente successo tra i ragazzi e tra gli adulti ne è la riprova”.

“Sono molto orgoglioso dei libri vincitori e in generale delle opere di questa edizione che con grande soddisfazione è tornata all’annualità” ha commentato Enrico Brizzi, presidente di giuria dal 2013. “Mai come oggi l’editoria consacrata alla montagna sembra vivace e capace di presentare un ampio e variegato ventaglio di titoli di autori italiani e stranieri. A testimonianza che l’attenzione alla qualità della vita e alle risorse del territorio è una tendenza forte in Italia, ma anche nel resto del mondo. E allora occorre fare proprio il monito del punto di riferimento per eccellenza della letteratura di montagna, nonché vincitore storico del Premio ITAS, Mario Rigoni Stern: ‘Spegnete la tv, leggete buoni libri e innamoratevi’.

Tra i buoni libri Brizzi cita Ferro di Primo Levi, in cui la montagna diventa isola, espressione di un altrove felice. Perché, in natura come in letteratura, siamo sempre nani sulle spalle di giganti:

“Vedere Sandro in montagna riconciliava col mondo, e faceva dimenticare l’incubo che gravava sull’Europa. Era il suo luogo, quello per cui era fatto, come le marmotte di cui imitava il fischio e il grifo: in montagna diventava felice, di una felicità silenziosa e contagiosa, come una luce che si accenda. Suscitava in me una comunione nuova con la terra e il cielo, in cui confluivano il mio bisogno di libertà, la pienezza delle forze, e la fame di capire le cose che mi avevano spinto alla chimica. Uscivamo all’aurora, strofinandoci gli occhi, dalla portina del bivacco Martinotti, ed ecco tutto intorno, appena toccate dal sole, le montagne candide e brune, nuove come create nella notte appena svanita, e insieme innumerabilmente antiche. Erano un’isola, un altrove”.

 

 

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