Il settimo numero della rivista “Sotto il Vulcano”, dal titolo “Sopravvissuti”, è curato dallo scrittore Paolo Giordano. Su ilLibraio.it proponiamo il racconto inedito di Andrea Bajani, un reportage dallo stadio NRG di Houston (“l’unico posto del Texas in cui un fucile non può entrare”). Lo scrittore racconta il pubblico che assiste al rodeo
Torna con il settimo numero la rivista Sotto il Vulcano, edita da Feltrinelli e diretta da Marino Sinibaldi. Curatore del nuovo numero, dal titolo Sopravvissuti, è lo scrittore Paolo Giordano. Come si spiega nella presentazione, nella sequenza di crisi che ci hanno colpito in questi ultimi anni – economica, sanitaria, sociale, geopolitica – abbiamo tutti dovuto, ciascuno a proprio modo, abituarci a convivere con una precarietà che pare ormai strutturale.
In Sopravvissuti, a raccontare come sopravvivere alle diverse sfide della contemporaneità, sono scrittori, poeti, filosofi, artisti, illustratori e scienziati italiani e stranieri, invitati a riflettere sul tema con un contributo inedito. A fianco a loro, le firme delle rubriche, tra cui Andrea Bajani, Marco Balzano, Ilaria Gaspari, Fabio Genovesi, Laura Imai Messina e Walter Siti.
Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo il reportage di Bajani dallo stadio NRG di Houston.
Il posto più sicuro d’America
di Andrea Bajani
Se al netto della loro ostinata spettacolarizzazione di ogni singolo evento volete capire perché siano stati proprio gli americani a mettere in scena Ben Hur e a farne un colossal hollywoodiano, venite a farvi un giro al rodeo. Lo penso seduto sul mio seggiolino – sezione 122, secondo anello, fila EE, posto 13 -, dentro lo stadio NRG di Houston mentre, all’apertura della gabbia, un cowboy schizza su un cavallo e si sta per lanciare a mani nude su un vitello che scappa a pieni polmoni mentre 50 mila persone urlano in visibilio dagli spalti.
Non è il primo e non sarà l’ultimo, ma come gli altri anche lui sta per tentare di volare dalla sella al vitello nel minor tempo possibile, e poi, sempre nel minor tempo possibile, lo atterrerà e con una corda gli legherà insieme due zampe immobilizzandolo a terra. Solo in quel momento il cronometro, sui monitor – dove in realtà tutti guardano, ignorando quel che succede dentro l’arena -, si fermerà e si capirà in che punto della classifica andrà a inserirsi il suo nome. E due altri cowboy a piedi raggiungeranno il vitello, lo slegheranno, e lui se ne trotterà verso l’uscita, mentre già nella gabbia un altro cowboy e un altro vitello si prepareranno a partire.
Ma ecco che il mio cowboy manca la presa col lazzo, lo tira con fare sicuro ma non infila la testa dell’animale, che continua a correre per un po’ e poi si ferma. Per quel che posso dire da qui, mentre un mormorio di delusione si diffonde tra i 50 mila assiepati, il vitello sembra se non proprio deluso, almeno confuso. Immagino che nel tempo gli si sia formato un istinto, e la sua vita funzioni più o meno così: corri più forte che puoi finché una corda ti strozzerà il collo, poi un corpo ti salterà addosso, ti trascinerà a terra di peso, e proverà a inchiodarti di forza alla sabbia. Lotta finché ci riesci e poi molla, perché quando ti legherà le gambe arriverà la pace. Per questo, penso mentre il tempo sul monitor non si ferma – non può fermarsi senza l’atterramento – ma scompare, il vitello smette di correre. Chi me lo fa fare, sembra dire, di continuare a scappare se poi nessuno mi bracca?
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Prima ancora che io faccia in tempo a chiedere alla mia vicina di posto (122/EE/12) e a suo marito (122/EE/11) cosa significa quando il vitello fa fesso il cowboy, in termini di punteggio, il successivo è già partito all’assalto. E non c’è niente da fare: mentre poi solleva di peso il vitello e lo sbatte al suolo ammanettandolo con un secondo lazzo che ha tenuto tra i denti galoppando, fino al momento del salto, non riesco a non pensare ai gladiatori. Il fatto che l’NRG Stadium di Houston sia tecnologicamente più avanzato del Colosseo e che non ci sia l’imperatore ad alzarsi e a fare pollice verso, lo fa per l’appunto assomigliare più al film – che offre la grazia di una morte comminata per finta – che alla Storia. Non c’è sangue versato, e d’altra parte i pollici qui sono tutti occupati a farsi un selfie, e spedirlo in diretta via Instagram – come da invito – per poi vedersi comparire poco dopo sui monitor, uno sotto l’altro accanto ai cowboy e ai vitelli braccati nella sabbia.
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I miei vicini di posto sono una coppia sui trent’anni abbondanti. Sono due dei 50 mila che man mano che si avvicina l’ora del concerto di Cody Jinks – cantante country metal, mi dicono – diventeranno 60 mila, anche se nel frattempo le famiglie con bambini, finita la mattanza di tori e vitelli, se ne andranno. Come almeno 40 dei 50 mila, i miei vicini hanno cappello da cowboy in testa e stivali di pelle ai piedi. Arrivano dal Mississippi, il che significa che sanno quello che fanno, anche se da dodici anni vivono nella campagna texana, lei come insegnante elementare, lui non si capisce bene. A differenza di lei, infatti, che sembra divertita dalla mia goffaggine europea e dal mio abbigliamento urbano almeno quanto io dal loro, lui diffida delle mie domande ed elude le risposte. Non so se lo faccia perché mi considera un idiota (tra le miei ipotesi è quella che la mia mente accredita per prima) o perché sospetta che io abbia dei secondi fini (quali?, la mia mente non trova risposta, quindi si accontenta di darmi dell’idiota, e di continuare a domandare).
E insomma, sono un cinquantamillesimo di un mare di cappelli texani seduto sopra un seggiolino, mentre nell’arena i cavalli e i tori cercano di disarcionare chi li cavalca (“ma come fanno i tori a sapere che devono saltare come degli ossessi?”, chiedo alla mia vicina, e lei risponde “li irritano con delle corde, fino a farli quasi impazzire, poi aprono la gabbia”) e se possibile incornarli. Qui in tribuna è tutto un alzarsi continuo per lasciare che la catena delle operazioni di rifornimento e masticazione non si interrompa mai. Si tirano su dai seggiolini, mi sfilano davanti e quando tornano, qualche minuto dopo, hanno altra Coca-Cola, altri hot dog, altro burrito tra le mani. Nella fila successiva (122/DD/12-13-14), un bambino di – a occhio – quattro anni è quasi alla fine di un immenso secchio di popcorn giallastri, il cui odore burroso è un cinquantamillesimo di un nauseabondo fetore di fritto complessivo. A ogni popcorn che si porta alla bocca, spero con tutto me stesso che si stanchi, che i genitori glielo tolgano, o che almeno contribuiscano alla pesca. Ma niente: lui continua a svuotarlo, a scavare in una sorta di meccanica ipnosi quel contenitore grosso come un secchio di vernice.
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E intanto dopo la batteria dei cowboy, arriva il momento delle cowgirl, che visibilmente interessa meno a tutti. È lì che lo tsunami dei cappelli vede la sua onda più grossa lasciare i seggiolini e montare su verso l’inferno dei Tornado Fries, del Tex Mex a tutto spiano, della pizza “pepperoni” e la scala cromatica completa di beveroni, tutti analcolici. Una dopo l’altra, le cowgirl si lanciano all’assalto, in una versione semplificata del rodeo maschile. Nessun animale imbizzarrito da cavalcare, e una specie di pietà nei confronti dei vitelli, a cui arriva sì il solito lazzo alla gola, ma la cowgirl lo lascia andare prima dello strappo. Va detto che tra le competizioni delle girls, c’è quella che, pur a pubblico ridotto, accende più gli spalti. È una gara più tradizionale, di velocità, un percorso contro il tempo girando intorno a tre bidoni blu. Le cavallerizze si lanciano, e al secondo bidone il marea di cappelli già comincia a urlare, come farebbe a bordo pista in uno slalom speciale. E quando il cronometro si ferma, alla fine della corsa della cowgirl di Conroe, Texas – così dice il monitor mentre la valanga di selfie lo travolge di sorrisi – salto in piedi pure io, e urlo in italiano. (Intanto il quattrenne davanti a me, dopo aver grattato il fondo, ha svuotato il secchio e dorme con la testa appoggiata sulle gambe del padre, e gli stivaletti di pelle su quelle della madre.)
Infine i miei vicini si alzano anche loro, dopo che lei mi ha dato le ennesime istruzioni su che cosa sta per succedere al centro dell’arena. I gladiatori se ne sono tutti andati, qualcuno zoppicando (una delle mie domande: “ma non si fanno male alla schiena con tutto quel saltare sopra i tori?”; risposta “maybe”), la maggior parte alzandosi il cappello, in segno di saluto. Immagino le loro sedute, nei prossimi giorni dal fisioterapista. Insomma, ne approfitto pure io per sgranchirmi le gambe e quando i vicini escono dalla fila, aspetto un istante e dopo esco pure io, sapendo che saremo di nuovo insieme a vedere il metal country di Cody Jinks.
È dall’alto che vedo la fine del rodeo per così dire vero e proprio. Mentre due trattori portano il palco al centro della scena, una piccola porzione recintata da transenne brandizzate dallo sponsor (Chevron, credo, o qualche altro impero texano del petrolio), viene adibita al rodeino per bambini. Non lo guarda nessuno, mi viene da pensare, se non i genitori dei diretti interessati, che escono a turno da una gabbia aggrappati al pelo di una pecora. L’animale gentilmente si incammina verso le transenne, fino a quando il bambino o la bambina cade giù. Indossano un caschetto, e non riesco a capire davvero se mi fanno tenerezza. Ma un brivido mi attraversa la schiena quando la telecamera inquadra il vincitore – sei anni – che allarga le braccia in un gesto muscolare, con una faccia mortalmente seria.
Ecco, a quel punto decido che è abbastanza, mentre si spengono le luci, una voce tuona che il concerto sta per cominciare e che è vietato filmare. Nel buio Cody Jinks e la sua band attraversando a piedi parte dell’arena, con le chitarre e i bassi in mano. E lì, mentre parte una batteria di fuochi d’artificio, il country singer dà il benvenuto al popolo seduto – lui barba hypster, cappello texano e occhiali da sole -, e il palco comincia a girare su sé stesso per accontentare ogni ordine di spalti. Tutti allora cominciano a filmare, e io mi incammino verso l’uscita.
Attraverso la spianata vuota, in piena smobilitazione. Tre ore fa era il centro dell’attrazione in attesa del rodeo, con il luna park e la mostra del bestiame. Le giostre si sono fermate, quelli che vedevano hamburger ora puliscono le griglie. Mi chiedo se stiano pulendo anche il convention center dove, al chiuso, in uno spazio fieristico uguale a tutti gli altri, fino a poco fa le mucche muggivano in mezzo a un mare di cappelli da cowboy, i pulcini uscivano dall’uovo, accanto a una spianata di materassi dello sponsor da provare, e trattori e pick up in esposizione, e cappelli e stivali in vendita, e griglie da portarsi a casa. Me lo chiedo, ma non provo a entrare, mi basta averlo visto. Quello che invece chiedo, in quel semibuio di pura struggente dismissione – mentre Cody Jinks continua a ruotare su stesso nello stadio – è come raggiungere la fermata del tram che mi riporterà a casa. Me la indicano fermando le pulizie, in pettorine catarifrangenti e cappello a tesa larga, e una cura supplementare per il mio smarrimento, scortandomi fino a dove la posso vedere (“Down there, buddy”).
E mentre vado verso l’uscita passo accanto ai metal detector, cui non avevo fatto caso entrando, pur avendo consegnato la mia borsa per i controlli necessari. E mi rendo conto solo adesso che questo posto, in cui per dieci giorni di fila ogni anno all’incirca due milioni di persone vengono a trascorre la giornata in famiglia, è l’unico posto del Texas in cui un fucile non può entrare. Cioè che l’unico luogo del Texas in cui non ci sono armi è uno spazio di 180mila metri quadrati in cui tutti sono vestiti da cowboy, e mettono in scena – con una forma molto complessa di sincerità – una visione del mondo, in cui animali, armi, Dio, stanno insieme alla ricerca di un’idea, pur folle, di sensatezza. E che dunque, presumibilmente, i parcheggi dello stadio, stipati di pick up, in questo momento sono un arsenale militare.
Alla fermata del tram siamo in pochi, anche se credevo ancora meno. Non c’è niente di più contradditorio che andare a visitare la più grande macchina di propaganda dell’America conservatrice prendendo un mezzo pubblico. Per questo forse lo facciamo. Mentre già si vedono i fari del tram in lontananza, un ragazzino perde la palla da basket, con cui palleggiava nell’attesa, che rimbalza sui binari. Il tram si ferma poco prima. Il ragazzino scende, la raccoglie e poi entra con noi con la palla sotto braccio, fino a quando con uno sbuffo si chiudono le porte. Poi partiamo, e mi chiedo che cosa scriverò, e mi dico che c’è qualcosa, in tutto quello che ho visto, che oltre a sconvolgermi in qualche modo mi commuove.
L’AUTORE – Andrea Bajani è nato a Roma nel 1975 e vive a Houston, Texas, dove è writer in residence alla Rice University. Con Il libro delle case (Feltrinelli), è stato finalista nel 2021 al Premio Strega e al Premio Campiello. Gli ultimi libri usciti, sempre per Feltrinelli, sono la raccolta poetica L’amore viene prima e la riedizione del romanzo Un bene al mondo.
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