“Probabilmente volevo diventare uno scrittore sin dall’infanzia. Cioè volevo scrivere un romanzo prima ancora che la guerra ci passasse per la testa. Poi…”. Sullo sfondo dell’assedio di Sarajevo, lo scrittore bosniaco Damir Ovčina ambienta la storia di un giovane liceale che ricalca la sua esperienza personale, discostandosi da oltre trent’anni di narrazioni del conflitto in Bosnia-Erzegovina. ilLibraio.it ha intervistato l’autore di “Preghiera nell’assedio”

1.425 giorni e decine di migliaia di morti: sono i numeri dell’assedio più lungo che l’Europa abbia visto all’interno dei suoi confini alla fine del XX secolo.

A distanza di trentun anni, l’assedio di Sarajevo diventa la scena in cui lo scrittore Damir Ovčina ambienta la storia di un giovane liceale bosniaco costretto a collaborare con le forze di occupazione serbe.

Di quella pagina buia della storia si è provato a raccontare ogni aspetto, ogni singola pallottola nei muri dei suoi edifici, per usare una delle immagini più riconoscibili della guerra in Bosnia-Erzegovina.

Nel suo primo romanzo, Preghiera nell’assedio (traduzione di Estera Miočić per Keller), lo scrittore sarajevese, che quell’evento l’ha vissuto in prima persona, si discosta da oltre tre decenni di narrazioni talvolta abusate. Il libro, uscito in Bosnia-Erzegovina nel 2015, in questi anni ha travalicato i confini della penisola balcanica per arrivare nel resto del continente.

La copertina di Preghiera nell'assedio di Damir Ovčina

ilLibraio.it lo ha intervistato in merito alla sua opera di esordio.

Ovčina, il libro attinge alla sua personale esperienza personale durante l’assedio di Sarajevo. Quando ha cominciato a sentire l’esigenza di scrivere un romanzo? È sempre stato convinto di questa scelta?
“L’esperienza è uno degli elementi del mio romanzo. E probabilmente volevo diventare uno scrittore sin dall’infanzia. Cioè volevo scrivere un romanzo prima ancora che la guerra ci passasse per la testa. In seguito, dopo la guerra volevo ancora scrivere e in particolare un romanzo, poiché concede molto spazio e somma tutte le possibilità e le qualità della letteratura, ma esitavo. La tematica della nostra guerra mi sembrava inutilizzabile. Mi ci sono voluti anni per trovare un modo di esplorare la mia stessa esperienza, conoscenza, immaginazione e altre cose necessarie. Poesie e racconti erano i miei primi scritti durante la gioventù, ma il romanzo è sempre stato il mio obiettivo”.

Lo stile è ciò che più colpisce: sembra esserci spazio solo per l’azione, continua e ininterrotta, e la riflessione non è contemplata. Solo i dialoghi tradiscono l’interiorità dei personaggi. Com’è arrivato a questa forma stilistica?
“La letteratura come forma d’arte consiste solamente nel trovare un metodo. Come riuscire a rendere la vita attraente, colorata, ricca, bella, pericolosa, ma sempre sempre meritevole di essere vissuta, di essere amata. Consiste nello scrivere una frase e farla muovere, coinvolgere i lettori, fargliela amare. La difficoltà che ho incontrato con lo stile consisteva nel processo di renderlo chiaro. Quel tentativo di essere onesto con i protagonisti, gli eventi, la lingua, mi ha portato alla posizione della ‘cinepresa’ come strumento principale. Volevo che fosse visibile e affidabile. I lettori, nella mia prospettiva, non hanno bisogno di un giudice, ma di un’esperienza, e di una specie di veicolo che li porti attraverso la storia”. 

In Italia, in questo stesso periodo, è al cinema L’appuntamento di Teona Mitevska, un film che svela il trauma ancora presente negli individui sopravvissuti e residenti a Sarajevo. Il trauma, purtroppo, non sempre ha il potere di unire le persone: ritiene che i cittadini (e i bosniaci) stiano evitando di affrontare il proprio passato per poter continuare a vivere la propria vita?
“Come in ogni altro posto, qui le persone continuano a dimenticare. Le nuove generazioni arrivano, nuove persone arrivano e alla fine tutto verrà dimenticato. Tutto, eccetto le storie. Anche se siamo ancora in un possibile conflitto, pochissime persone provano a capire davvero cos’è successo, cosa accade e cosa potrebbe accadere. Gli esseri umani cercano di trovare soluzioni facili ai problemi. E le persone con traumi seri non ne parlano facilmente”.

Ritiene che libri come il suo possano contribuire a ricordare e a ricostruire da un passato recente?
“Pensando alla memoria collettiva, trovo che l’arte, e soprattutto la letteratura, nella sua stessa forma o come sceneggiatura di film o spettacoli, siano l’unico modo possibile di ricordare. Le cose che abbiamo visto, o qualsiasi cosa sia successa nella storia. Nessuna forma è altrettanto interessante”.

E come viene accolto questo tema dalle nuove generazioni?
“Alcuni giorni fa ho parlato con dei ragazzi liceali del mio romanzo: vedevo quei ragazzi per la prima volta, erano nati molto dopo la guerra, e mi dicevano cose simili a quelle che ho pensato durante il lavoro sul mio romanzo. La nostra abilità di scrivere e creare manterrà la verità sulle nostre vite, oppure la perderà”.

La gran parte degli scrittori ex-jugoslavi, siano essi rimasti in patria o appartenenti alla diaspora, raccontano una frattura con il passato che è come un impossibile ritorno a casa. Perché l’assedio di Sarajevo resta ancora l’episodio più raccontato delle guerre dei Balcani? Che cosa rimane da narrare?
“Molti degli scrittori che vengono da qui, come molti degli scrittori da altrove, sono mediocri e ripetono cose note. Non volevo parlare dell’assedio, ho solo scritto della mia strada, della mia scuola, del mio tetto, della mia vita, di tutte le cose che ho visto, o almeno di cose che avevo la sensazione di conoscere abbastanza. Gli eventi danno resistenza all’arte. Ci serve una forma superiore e la capacità di gestire la realtà. Nel secondo romanzo, pubblicato due anni fa, ho scritto di eventi accaduti venti anni dopo la guerra. La vita continua, ma non c’è una regola per nulla. Un bravo scrittore può scrivere una storia a partire da qualsiasi cosa. La mia sensazione, sulle nostre storie sulla guerra, è che molti scrittori danno l’impressione di assumere la posizione di vittima. Si è sempre trattato di mistificare i Balcani, di demonizzarli. Non mi è mai piaciuto. Anche per parlare degli eventi presenti, ci serve molta più azione rivolta a noi stessi. Nessuno verrà a rendere migliori il nostro mondo e le nostre vite”. 

(photo credits: Dženat Dreković for portal nomad.ba).

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Fotografia header: Damir Ovcina, Preghiera nell'assedio (Keller) - photo credits: Dženat Dreković for portal nomad.ba

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