“L’Atlante delle meraviglie – Sessanta piccoli racconti mondo” di Danilo Soscia è molti libri insieme: può essere letto dall’inizio alla fine come un catalogo fantastico delle passione e delle avventure umane, oppure può essere percorso seguendo a piacere la trama di temi e luoghi che lo sottende. L’autore ha raccontato a ilLibraio.it dell’origine del suo Atlante, di come esperienze passate e letture lo abbiano influenzato, da Eliot a Kafka – L’approfondimento

Archeologia del tempo presente

C’è un evento della mia infanzia che forse in modo traumatico ha condizionato la mia personale idea di scrittura. Abitante di una periferia ennesima, al margine di uno scalo ferroviario del Suditalia alla fine degli anni Ottanta, mi capitò di assistere a una specie di ritrovamento archeologico. Durante l’allestimento di un cantiere, in una oliveta i cui alberi furono mangiati vivi, una squadra di operai sparigliava la terra per scavare le fondamenta di un complesso condominiale. Prima del tramonto, la ganascia dell’escavatore agganciò la lamiera di una Ford Escort verde petrolio sepolta a quasi un metro di profondità. Ignari del suo contenuto, terrorizzati, gli operai fuggirono dalla fossa. Poi, ritrovato il coraggio, un escavatore più piccolo e preciso si mise a rasare il terreno intorno alla carrozzeria, fino a quando la Ford verde petrolio non si manifestò nella sua antica interezza. C’era una macchina affogata sottoterra e nessuno sapeva dire come. Certi che fosse vuota e immacolata, con una gru la sollevarono all’aria. Sospesa finalmente nel cielo pauroso di maggio, osservavo apatico quel mostro infernale. Era un reperto archeologico del presente, malinconico come una vittima sacrificale, patetico, assoluto. Il cadavere ferroso della mia infanzia finita da poco veniva estratto dal suo alveo nascosto, lì dove forse la misericordia dell’oblio l’aveva custodita.

Credo di aver molto fantasticato su quanto accadde allora. In me, nel corso dei decenni, è germogliata la certezza che ogni reperto rappresenta in sé un’epifania, soprattutto quando materializza un cortocircuito temporale, o una vertigine di senso. Esattamente come una Ford Escort verde petrolio conservata sottoterra in un’ipotetica, moderna necropoli. Dopo il miracolo, molti degli abitanti del mio quartiere si convinsero che le storie solo sussurrate intorno all’esistenza di un inferno speculare al nostro mondo non solo fossero vere, ma che presto non saremmo stati più capaci di distinguere il sopra dal sotto. Il complesso condominiale non venne mai finito, e il campo rimase sterile, varco d’ingresso a qualcosa che nessuno voleva visitare, né conoscere.

In principio erano le rovine

All’origine dell’Atlante vi è dunque la paranoia del bambino che fui, puntellata da una biblioteca di libri incontrati per caso. Illuminazioni fagocitate in punta di labbra, letture bulimiche, coatte. Personaggi, oggetti, vicende inumate nella memoria, che lentamente avrei estratto e messo in mostra. D’altro lato vi è anche la mia passione per i musei, i cimiteri, gli erbari, gli elenchi del telefono, i cataloghi, luoghi materiali e immateriali in cui raccogliere e ordinare l’esistente. Infine, vi sono i miei tesori, la cui lunga immersione nella terra li ha privati della scorza originaria, liberi ormai dalla cera della tradizione e della storia.

Eccone alcuni. The waste land di Thomas S. Eliot, scoperto in età giovanissima e assunto per fede come un testo sapienziale, dove le rovine della poesia compongono una quinta di senso nella quale mi risveglio a occhi sbarrati ogni volta che affronto una pagina bianca. La tristezza di Odisseo e l’equivoco legato al suo viaggiare, punizione mortale inflitta a un uomo che la vendetta ricompenserà di un pellegrinaggio tanto tragico quanto vuoto. La mummia di Kafka e l’ombra di Gregor Samsa, anzi la corazza del Grande Insetto asciugata dagli organi interni. I racconti di Cortázar, in particolare uno, Lettere di mamma, scovato ne Le armi segrete, che per primo mi ha insegnato l’amore per gli epistolari apocrifi. La voce di Eschilo mentre scandisce i versi dell’Agamennone, un reperto che non saprò mai nemmeno immaginare, e che pure è un vuoto che ha suggerito tante pagine dell’Atlante. Le sprezzanti lettere dall’Abissinia di Monsieur Rimbaud, calvo e piegato dalla dissenteria, alla fine mercante solo di se stesso. E poi una certa inquietudine spiando Walter Benjamin nel suo peregrinare per Parigi, lui che forse inventò la leggenda del flâneur per assolversi dal vizio di camminare senza una meta. Quel miracoloso zibaldone che sono i Passegenwerk è il più bel romanzo casuale che abbia mai letto. Le lenzuola tahitiane di Paul Gauguin, l’ispirazione religiosa della sua ossessione erotica. Il sacrificio del corpo di Antonio Gramsci nelle carceri fasciste, e le pagine dei Quaderni come un punto di non ritorno, la profezia del mio presente. L’incipit più bello, «Aujourd’hui maman est morte», letto su una copia sfregiata de Lo straniero, e il Satana più fresco dai tempi delle sortite medievali nelle Confessioni di un peccatore eletto di James Hogg. Il Sudafrica ghiacciato di John M. Coetzee e il labbro leporino di Michael K. La scoperta di Lu Xun e degli scrittori della Cina contemporanea. La pasta di granchio preparata dallo zio Liu in Sorgo rosso di Mo Yan rappresenta un’allegoria della scrittura per me tra le più mercuriali della contemporaneità. Infine, ma solo per capriccio, il cimitero sonoro di Spoon River e dei suoi martiri, dal cui concept temo di aver dedotto molto per il mio Atlante.

Il racconto e l’arte di evocare i morti

Come si costruisce un personaggio la cui presenza abbia un suono riconoscibile? Lo si evoca dalla morte, nel tentativo molto spesso fallimentare di intercettarne e amplificarne la voce con la propria scrittura. Ci si costringe cioè nella condizione di Macbeth quando arriva a dire, dannandosi, che «Nulla è se non quello che non è», condizione altissima della mente che ha materializzato l’impossibile, incidendo sulla superficie della vita il segno dell’orrore immaginato, che è ben più doloroso di quello reale.

Tra i molti pregi, la forma racconto ha questo di buono: una quasi perfetta aderenza al molteplice. Ogni singolo oggetto dell’Atlante, ogni maschera, simulacro, o fantasma vive sì nella sua particolare bolla, ma anche nel complesso astronomico in cui si colloca. È stella e costellazione allo stesso tempo. Per questo, esattamente come un reperto in un museo, un racconto ha sempre una vita duplice. Vive in sé, portatore di una verità microscopica e assoluta, e vive fuori di sé, nella corrispondenza con gli altri oggetti con cui condivide il medesimo spazio. A differenza del tempo, infatti, lo spazio è una proiezione orizzontale, dove tutto esiste contemporaneamente. Una sequenza in cui possono apparire senza soluzione di continuità Antigone e Mao, Arianna e Gesù,  Erode e il profeta Giona, Jessica Fletcher e Bertolt Brecht, e così di coppia in coppia.

Un pugno di storie può dunque contenere la vastità del mondo, inoculando in chi legge scenografie inverosimili eppure realistiche. Penso alle ambientazioni cinesi e giapponesi di certe novelle italiane del Settecento, alla loro capacità di evocare un luogo remoto quasi solo attraverso il nome, come se fosse sufficiente pronunciare una parola per spalancare un universo. Allo stesso modo, la geografia dell’Atlante è tesa in una oscillazione isterica, che procede dall’antica Grecia alla Parigi anni Quaranta, dalle favelas di Rio de Janeiro alle sale di Pachinko di una Tokyo contemporanea. E ciascuna di queste località è un fondale, la piatta proiezione di un sogno perduto.

Una lista, per finire

Ridotto a un corredo di racconti, il mondo ha infine un suo corrispondente psicotico: la lista. Un’espressione geometrica contro la sensazione del caos, nemica giurata degli ossessivi. C’è un personaggio, tra i tanti smarriti nei meandri dell’Atlante, che quasi confessa al lettore il segreto di tutto il raccogliere, di tutto l’operoso conservare sedimentato nelle pagine e nella vita: «Oggi ho steso una lista degli eventi che mi rendono felice. La tengo ripiegata in quattro, nella scarpa. Ho steso una lista per non dovermi più preoccupare di cosa è buono e di cosa è nocivo per me. Non debbo usarla, niente e nessuno mi obbliga a farlo, nemmeno le circostanze terribili della quotidianità. La lista è la mia pistola. È lì, immemore e quieta, e ogni volta che avrò bisogno di morire, sparerò un colpo in aria».

Danilo Soscia

L’AUTORE E IL LIBRO – Danilo Soscia, classe ’79, giù autore della raccolta di racconti Condomino (Manni, 2008), è studioso di letteratura e di Asia Orientale (ha curato il volume In Cina, Ets, 2010, e ha realizzato lo studio Forma Sinarum: Personaggi cinesi nella letteratura italiana, Mimesis, 2016). Torna in libreria per minimum fax con Atlante delle meraviglie – Sessanta piccoli racconti mondo, libro originale che raccoglie parabole esemplari, memorie infedeli, miti e fantasmi, in cui l’autore narra le inquietudini e le ossessioni che da sempre attanagliano il cuore e la mente degli uomini. L’Atlante è dunque molti libri insieme: può essere letto dall’inizio alla fine come un catalogo fantastico delle passione e delle avventure umane, oppure può essere percorso seguendo a piacere la trama di temi e luoghi che lo sottende. Vi si incontrano uomini non illustri accanto ad Arthur Rimbaud, Gesù, Mao, Antigone, San Francesco, Jurij Gagarin e Friedrich Nietzsche. La Berlino di Bertolt Brecht e quella del panda Bao Bao si collegano alla Parigi di Walter Benjamin, e il viaggio della nave di Odisseo all’isola di Circe prosegue nell’avventura di una cagnetta selvatica, in orbita intorno alla Terra a bordo di un’angusta navicella spaziale.

Una nota per i lettori romani: l’autore presenterà il suo libro alla libreria Assaggi di Roma, il 1° febbraio alle ore 19:30, insieme allo scrittore Matteo Trevisani.

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