“Spirito libero e sangue caldo” racconta la vita di Marianna A., una donna che, pur non avendo studiato, ha deciso di parlare di sé in prima persona, non per descrivere la storia dei rom nella loro interezza, ma per condividere ciò che ha segnato una donna rom in carne e ossa – Su ilLibraio.it un estratto dal volume, in anteprima a Pordenonelegge

Una donna che non ha studiato eppure decide, alla soglia dei cinquant’anni, di raccontarsi: è Marianna A., autrice di Spirito libero e sangue caldo. Autobiografia di una donna Rom (ediciclo editore), volume a cura di Luigi Nacci e con una postfazione di Santino Spinelli, che verrà presentato in anteprima nazionale a Pordenonelegge giovedì 16 settembre alle ore 20.30.

Si tratta di una testimonianza portata avanti senza pudori: dall’infanzia nei Balcani a quando la giovane è stata venduta dal padre per tre monete d’oro, dal giorno in cui è stata violentata per la prima volta ai continui cambi di accampamento, dal primo figlio avuto da un gagio italiano da cui sarà costretta a separarsi, al matrimonio con un uomo violento, Marianna non trascura niente.

A tale proposito, Luigi Nacci nella prefazione ci tiene a sottolineare che “non si tratta della storia dei rom, ma della storia di una donna rom“, perché resta indubbio che “non tutti i rom vivono così, né tutte le donne rom vivono esperienze così drammatiche”. È Marianna ad avere conosciuto in prima persona la povertà, la musica, l’elemosina, le notti sotto le stelle, i tanti figli, un’altra Trieste, le gonne al vento, i fondi di caffè, i ripetuti tentativi di fuga… fino all’ultimo, che la farà approdare a una nuova vita all’insegna del riscatto, della libertà e dell’indipendenza.

Proprio in quest’ottica, continua Nacci, la sua autobiografia è pensata per “lettrici e lettori di buona volontà che accoglieranno in sé con tatto e con grazia i dolori e le fatiche di Marianna e al contempo la sua gioia di vivere, l’orgoglio di appartenere a una comunità di creature libere e pacifiche che non hanno mai fatto la guerra, nonché la sua tenacia nell’allevare i propri figli e nel battere la propria strada”, la stessa tenacia che ha permesso al manoscritto di passare di mano in mano, fino a giungere per caso sotto gli occhi del curatore della collana La biblioteca del viandante.

Un’opera, in altre parole, per “lettrici e lettori che apprezzeranno le scene lucenti, di feste che si protraggono per giorni, di porte aperte a chiunque arrivi, di solidarietà, di pazienza, di umiltà, di rispetto per gli anziani, di amore per una vita all’aria aperta“.

Copertina del libro Spirito libero e sangue caldo

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un estratto:

Stava per sposarsi un nostro cugino e iniziavano i preparativi. Mentre le ragazzine e le donne ballavano con le gonne belle e i sandali bellissimi, con tanto oro addosso e i gioielli, con la musica, a noi toccava solo lavorare, perché non potevamo fare parte di quelle danze, non eravamo all’altezza dei loro costumi e della loro ricchezza. Per loro noi eravamo i più poveri ed eravamo come piccoli schiavi.
Quella sera mio padre si è ubriacato forte e ha dato fuoco alla nostra casa. Ci siamo messi in fuga per i boschi, scalzi e mal vestiti. Le fiamme erano così alte che ci sembrava potessero bruciare anche gli alberi freddolosi e ghiacciati. Grandi erano nei nostri cuori la paura e la tristezza. Guardavamo dal bosco la casa in fiamme: tutto bruciato, e lui cantava e beveva. Le persone stavano a guardare in silenzio, non dicevano né facevano nulla. Poi qualcuno ci è venuto a cercare e ci ha invitato in casa sua, un tè caldo e una coperta per dormire. Il giorno dopo mio padre si è pentito e ha ripulito il terreno che era coperto di cenere. Si è messo a costruire una baracca di legno per poter superare l’inverno al caldo. Era dispiaciuto. Quando l’ha finita ci ha salutato e se ne è andato via da solo. Girava il mondo di qua e di là e non si faceva sentire. E noi eravamo tristi senza di lui. A me veramente mancava molto. Poi è tornato con tanto denaro, tanti regali e si è fermato.

Un giorno Anna è scappata con un suo cugino facendo dispiacere la mamma e il papà. Sono andati a riprenderla e l’hanno portata a casa e le hanno dato le botte. Papà si è ubriacato e ha dato di nuovo fuoco alla baracca con tutte le cose che la mamma e noi avevamo raccolto in giro. C’erano anche una mia bambola, le mie scarpe preferite e una macchinina di Ettore, era tutto ciò che avevamo, il nostro piccolo tesoro prezioso. Tutto in cenere un’altra volta e noi in giro per i boschi sempre nelle giornate più fredde. Allora la mamma si è decisa a mandarlo via. I fratelli della mamma si sono riuniti, lei diceva che non lo voleva più, papà stava zitto zitto. Hanno discusso per tutto il giorno. Alla fine papà se ne è andato e il fratello della mamma ha deciso che noi dovevamo stare nella sua vecchia casetta. Non aveva finestre, era fatta di pietre grosse ed era tutta rotta e brutta. Diceva che lui e i ragazzi l’avrebbero sistemata. Così è stato, ma faceva comunque tanto freddo. Andavamo a dormire vestiti e la mamma ci scaldava i mattoni e ce li metteva sotto le coperte, ma il freddo e il vento entravano dappertutto. Con le zie potevamo guardare la tivù e avere un buon piatto di minestra calda.

Passava il tempo. Mio papà è tornato e ha dato fuoco alla casa dello zio, per fortuna senza noi dentro. La casa bruciava, fuori c’era tanto fumo che il cielo sembrava nero. E così noi di nuovo senza niente. Lui non si è fatto più vivo e noi abbiamo passato l’inverno più pesante delle nostre vite. Abbiamo piantato una tenda su quel terreno, sempre dov’era la casa dello zio, e la mamma l’ha messa a posto bene. Pioveva e c’era un vento forte, così io, Ettore e Miriam ci siamo ammalati. Povera la mia mamma che lottava per noi! Avevamo la febbre alta e la mamma non aveva i soldi per comprarci le medicine. Andava dalle sue amiche contadine che erano molto gentili all’epoca e la aiutavano in qualunque cosa lei avesse bisogno. Ci siamo ripresi un po’, ma eravamo ancora deboli, anche perché il cibo non era sufficiente.
Abbiamo passato due mesi bruttissimi lì, in tenda. Poi una zia, che era la moglie del fratello di mia mamma, ci ha detto di occupare la casa di suo figlio che si era appena sposato, che era in Italia con ala moglie e che non sarebbero tornati per mesi. Non abbiamo voluto accettare per la paura che se fossimo andati in quella casa, papà sarebbe potuto arrivare e darle fuoco. La mamma preferiva soffrire che fare danni alle persone buone. La zia non voleva che noi piccoli stessimo male e lei e lo zio cercavano di convincere la mamma ad accettare la casa, la supplicavano. Allora la mamma ha accettato e finalmente noi in un bel caldo: c’erano una grande stufa, un letto e il tavolo con le sedie, e fuori dalla casa c’era pure la fontana. Stavamo più che bene!
Io e Miriam andavamo dalle amiche contadine di mamma a chiedere se ci potessero dare del cibo. Andavo anche più lontano, ad aiutare altre contadine in qualche faccenda domestica per guadagnare qualcosa in più, e con la mia mamma andavamo più lontano ancora, attraversando un ponte stretto e lungo, fatto di legno e corde. Io avevo molta paura, piangevo, perché quando guardavo giù c’era un fiume che scorreva velocissimo. La mamma mi teneva stretta a sé e mi dava coraggio dicendomi: «Dai, tesoro, non avere paura. Sei grande e le persone grandi non devono avere paura». E così passavo oltre. Però al ritorno era sempre uguale: paura.

La mamma si arrangiava per andare avanti. Eravamo molto soli, ma felici. Se volevamo giocare facevamo le bambole dagli stracci, mentre la mamma ci faceva le calze dalle maglie vecchie: tagliava le maniche, le cuciva e ce le infilava ai piedi, a me e al mio fratellino Ettore. E stavamo bene. Ci cucinava patate in forno con la cipolla, quello era il nostro pranzo e anche la cena, ma per farci più felici ci faceva un dolce, il rotolo con la zucca, e quello era la nostra più grande festa.
Con la mamma andavo dove le persone costruivano le case e avanzavano piccoli pezzi di legno. Li portavamo a casa in un grande sacco e li bruciavamo per scaldarci.
Un giorno è arrivato papà. Voleva portare me e Ettore a Mostar, ma la mamma non era d’accordo, non voleva che andassimo via senza di lei. Hanno litigato tantissimo e alla fine siamo partiti tutti assieme. Ci siamo accampati con la tenda vicino alla stazione dei treni. Io ed Ettore andavamo dalle contadine del paese a domandare se potevamo aiutarle in qualcosa per avere in cambio del cibo, le contadine erano cordiali e noi eravamo felicissimi perché portavamo a casa tante cose buone. Ci bastava poco. La sera tardi papà ci raccontava le sue avventure.

Un giorno la mamma ha deciso di tornare a Jablanica e di costruire una casetta per noi, perché nella casa del cugino non potevamo più stare. Una volta arrivati ci siamo messi a pulire il terreno e a preparare i buchi per i pali. La mamma si dava molto da fare, era brava a fare i progetti della casa. Piano piano abbiamo raccolto il materiale necessario, solo ci mancavano i chiodi. Ettore, Miriam e io siamo andati dove si costruiva una scuola nuova e abbiamo raccolto tanti chiodi, tutti quelli che cadevano per terra agli operai. Portavamo anche tavolette di legno sottili, proprio quelle che la mamma cercava. Così abbiamo costruito una piccola baracca, bellissima e calda, che all’interno abbiamo rivestito con la terracotta. Abbiamo impiegato tanto tempo, però era fatta più che bene. Ci abbiamo messo dentro due letti, una stufa a legna, un tavolo e un bell’armadio. Non avevamo luce, ma c’erano le candele. A volte non avevamo le candele e la mamma metteva in una ciotola un po’ di grasso e uno straccio di cotone, lo accendeva e faceva luce.
Prima di affrontare l’inverno lungo e gelido andavamo insieme alla mamma a raccogliere un po’ di mele, un po’ di patate e castagne, noci e fagioli. Non avevamo la fontana davanti alla casa e dovevamo camminare chilometri per andare a prendere l’acqua con le taniche. Qualche volta la prendevamo dalla zia, a volte in un altro paesino che aveva la fontana pubblica, altre volte, quando Fata trovava la neve pulita, la metteva in una brocca e la scaldava. Quest’acqua noi la bevevamo, ci si faceva da mangiare e ci si lavava i piatti. Facevamo anche tanti pupazzi e ci divertivamo a tirare le palline di neve a chiunque passasse di lì.
La nostra casa era allegra, c’erano sempre tante persone, soprattutto le amiche della mamma, perché la mamma era brava a fare la cartomante, a leggere il fondo di caffè delle tazzine. Riusciva a vedere il futuro con quarantuno fagioli. Le persone pagavano bene e portavano cibi, veramente non ci mancava nulla, venivano i nostri cugini e le cugine e le zie e raccontavano le storie e le fiabe. Si mangiavano le noci e le prugne secche e si beveva tè caldo.

(continua in libreria…)

Libri consigliati