Dalle atmosfere soprannaturali di “Stranger Things” alle concitate avventure di “Stand by me” di Stephen King: “Buio padre” di Michele Vaccari mette in scena una storia di formazione dai toni dark e paranormali. Quattro amici inseparabili, una misteriosa maledizione che sconvolge la vita tranquilla di piccolo borgo montano… – Su ilLibraio.it un estratto

Buio padre (Marsilio) segna il ritorno in libreria dello scrittore ed editor Michele Vaccari, autore, tra gli altri, di Il tuo nemico (Frassinelli), Un marito (Rizzoli), Urla sempre, primavera (NN Editore) e ideatore del service editoriale Crudo Studio.

Il nuovo libro di Vaccari, nato a Genova nel 1980, è un romanzo di formazione dai toni dark e soprannaturali, in cui quattro ragazzi indagano su una misteriosa maledizione che destabilizza lo sperduto paesino di montagna in cui vivono…

Buio padre Michele Vaccari

Buio padre narra le vicende di Vinicio, Raul, Adamo e Dafne: quattro amici tanto diversi quanto inseparabili, ognuno con i propri sogni… ma anche con i propri disagi.

Uno tra i tanti, essere nati a Crinale: un borgo disperso tra i monti liguri che vive di falegnameria, agricoltura e manifattura, assicurando ai giovani divorati dalla fame di vita un futuro privo di slanci. Quando il padre di Vinicio, storico falegname, perde il lavoro, la sua famiglia è costretta a trasferirsi. Gli amici del ragazzo organizzano così una festa d’addio in una chiesa sconsacrata, ed è proprio lì che ha inizio una lunga serie di eventi inspiegabili

Quella sera scoppia un violento temporale e la grande montagna che domina il piccolo borgo si spacca in due. Il mattino seguente i padri del paese iniziano a manifestare degli strani comportamenti: c’è chi parla coi muri, chi intona canti notturni nel cimitero, chi stipa l’auto di armi come per prepararsi al giorno del giudizio. I quattro amici si mettono a indagare intorno al mistero e scoprono che alla radice della follia c’è qualcosa che si cela da tempo immemore nel cuore della montagna…

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto dalle prime pagine del romanzo:

In Italia, per trent’anni, sotto i Borgia ci furono guerre, terrore, omicidi e carneficine ma vennero fuori Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera non ci fu che amore fraterno ma, in cinquecento anni di quieto vivere e di pace, che cosa ne è venuto fuori? L’orologio a cucù.

ORSON WELLES, Il terzo uomo

Atto I

Crinale

1

Raul

«Ho ragione?» conclude Raul, indicandogli lo schermo mentre rientra in carreggiata.

Adamo scorre le immagini sull’iPhone in bilico sul cruscotto: una chiesa sventrata, il tetto che non esiste più, qualche scritta contro il clero che domina le pareti della navata centrale, la giungla che spunta dagli infissi svuotati di finestre.

«A-do-ro» scandisce neutro, con quel tipico inframezzare che gli caratterizza la sintassi e gli ha dato soprannome, senza soffermare lo sguardo su nessuna in particolare di quelle fotografie di rovina: con la testa è già là, a quando
tutto sarà successo, e di loro, come amici, resterà la nostalgia di quest’ultima estate insieme, terribile, ma da inseparabili.

«Death ci va fuori» sancisce Raul tronfio per la sua impresa. Poi si incupisce: «Speriamo che anche lui…»

«Gli ho mandato la posizione» lo interrompe Adamo senza quasi muovere le labbra, mentre infila la punta della cintura nell’alloggiamento di competenza, si mette le mani dietro la testa, si lascia invadere i pensieri dalle notizie del radiogiornale, storie di emergenze, di miracoli, di leggi liberticide vendute come nuovi simboli del progresso sociale.

«Speriamo non sospetti nulla.»

«È una festa delle nostre. È un luogo dannato. Saranno quasi tutti minorenni. Il problema è l’effetto sorpresa?»

Ripulita alla bene e meglio tanto per non prendersi il tetano o simili, la chiesa maledetta, come l’aveva ribattezzata per attivare un istinto diabolicamente seduttivo, era diventata in pochi giorni la notizia. Per scatenare la curiosità erano bastate le due parole, chiesa e maledetta, rigorosamente usate con effetto di simbiosi. Raul ovviamente ci aveva marciato, centellinando gli indizi, procrastinando al limite del fastidio ogni risposta, alimentando l’hype, caldeggiando agli invitati una discrezione da golpe, come a voler creare il perimetro di un gioco di ruolo dal sapore mistico e settario, per montare il caso e lasciare campo libero alle ipotesi, al sentito dire, regno naturale del passaparola, di ogni successo.

Ci sarà una festa, sì, venerdì, esatto, una situazione pazzesca, sì, ci saranno tutti, no, Vinnie non sa nulla, vedete di non… Sì, esatto, dalle dieci, oh, se volete venire prima a dare una mano, l’importante è… Bravo, hai capito, è una festa a sorpresa, accendiamo un falò, portale, a male non vanno… Sì, si trasferisce, eh, suo padre, la falegnameria, comunque: quanti siete? Okay, niente gente di merda, solo questo, è una cosa mezza tra pochi, capito?… Quello che vuoi. L’importante è niente porcate alla frutta… No, quello non serve, ne abbiamo da affumicarci Amsterdam… Non lo so, dobbiamo capire se ha nevicato da qualcuno, mi informo… Ecco, questo sì, ricordati lo squillo quando ci siete che vi dico dove parcheggiare.

La faccenda aveva invaso le chat di gruppo dei ragazzi della Valle. Era un fatto acclarato: chiunque agognava di ricevere il mitico messaggio con l’invito alla festa del male.
Aspettavano una notifica da Raul o l’inoltro di qualche contatto in comune per mostrare ai propri amici il segno inconfutabile di una preziosità che la vita della maggior parte di loro non sarebbe mai stata in grado di offrire.

«Almeno, se lo ricorderà per tutta la vita.»

«Sembra una minaccia» gli fa notare Adamo.

«Ci tengo sul serio.» Quasi lo proclama Raul, ma con voce tremula, cuore incrinato che parla da un futuro alternativo in cui è successo, Vinicio ha scoperto tutto, la festa è stata un disastro.

«A Vinnie, ci tieni?» insinua Adamo.

Raul alza appena il mento.

«Se devi dirmi qualcosa, dimmelo» lo sfida autoritario.

Adamo si tira bene sul sedile della Panda, l’addome flaccido che esce dappertutto. Si schiarisce la voce.

«Raul, mi torero, siamo sinceri, okay? Stai creando i presupposti perché chiunque voglia un party del genere ogni settimana. Nulla da dire, top, okay? Ma l’amicizia è l’amicizia, e il successo è il successo. Ci tieni a Vinnie? Io non sono quello che deve dirti come ci si comporta. Ma una cosa, mi permetti? Ascolta bene il tuo entusiasmo e cerca di capire come tenerlo a bada. È la sua festa, ma sembra la tua» conclude acido, dando un colpo di tosse per riempire il vuoto che ha creato con il suo affondo.

Un sopracciglio non smette di vibrargli.

Raul stringe ancora più forte il volante. Muove la testa a destra e a sinistra. Si sposta le ciocche canute dagli occhi, cerca di trovare uno sguardo che parli per lui. «Dai, Ado. Lo sai» tentenna, come un padre costretto da un’antica bugia a mettersi a nudo davanti al figlio. Il tono, soprattutto, è diventato quello di un genitore: esacerbato, sbrigativo, derelitto. Inclina il viso, finge di interessarsi ai chilometri che mancano a Carasco, decelera, cambia corsia senza mettere la freccia, lascia che l’odio del rumeno a cui ha appena tagliato la strada si manifesti libero nei suoi confronti.

«Tu credi lo faccia apposta, il solito me che vuole avere gli applausi. Ma non è così» conclude spento.

Adamo annuisce senza obiettare. Sa che la provocazione stinge a contatto con la vera sofferenza. Con le dita serrate a pugno trattiene la manica della giacca, fa per distrarsi: libera il finestrino dalla condensa con movimenti circolari; nel farlo sembra ripassare le ultime mosse imparate a una lezione di karate.
Intanto Raul prende un lungo respiro, un bambino che si prepara al suo primo tuffo in mare da uno scoglio famoso per certe imprese.

«Non voglio che sia come quando sono partito io, ecco» confessa, con le frasi che sembrano aver terminato proprio in quell’istante un lungo viaggio nell’abisso.

«Ci vado ancora fuori a ripensarci. Dovevano esserci tutti. E invece.»

Raul non è di qui. Otto anni fa si è trasferito da Tortona. Nel tono, ha conservato quella strafottenza di chi viene dal paesone che fa quasi provincia a sé, come a dirti: qua non ci muoio, non sono mica voi, casa mia è il mondo.

Più che per dire addio a Vinicio, la faccenda della chiesa sconsacrata e la festa da organizzare sono per Raul le pietre d’angolo del disegno complessivo di vendetta che intende compiere contro il suo passato, come a compensare la voragine di solitudine e smarrimento che lo attraversa da quando è stato costretto a trasferirsi, a svegliarsi, a rendersi conto che per chiunque per cui avrebbe dato la vita, lui era nessuno.

Mentre un gelo più profondo di quello dell’inverno cala tra loro, il paese sparisce dall’orizzonte posteriore. Entrano in superstrada, le case diventano anomalie del panorama. Non c’è nulla da temere, tranne quella paura che entrambi un giorno si sono confessati: al loro ritorno, di Crinale, non sia rimasto altro che l’aspetto, e loro, unici, spauriti sopravvissuti di un’imprevista, inspiegabile apocalisse, costretti a inventarsi evangelisti della sua parabola, i soli in grado di tramandarne la leggenda, invocarne la resurrezione.

«Speriamo di evitarci troppo disagio. Non ho voglia di fare la mamma a gente come Robi e la Cinzia mongoloidi d’erba.»

«Sanno gestirsi.»

Adamo alza appena le spalle.

«Sarà. Io comunque te lo dico: appena vedo una stronzata brutta, cose tipo bottigliette che saltano fuori dagli zaini e tizi che si abbracciano a caso perché sono fatti di MD fino alla spina dorsale, prendo e me ne vado. Odio la gente felice senza sforzo. Mi fa credere sia possibile esserlo anche da sani. A costo di farmela a piedi fino alla fermata dei bus di Areno, torno al mio caro nulla e tanti saluti.»

«Stai bravo. Fidati. Hanno la loro convenienza a stare buoni. Avranno qualcosa di oggi che si potranno portare dentro per sempre.»

Raul continua a impegnarsi nel tranquillizzare Adamo, ma è un paradosso: mentre si premura di interpretare al meglio il ruolo di padre fittizio, effettua un altro sorpasso da processo penale. Adamo quasi non se ne accorge: è troppo impegnato a stare in ansia, atterrito da un’idea che non riesce a frenargli orrende fantasie di paranoia: se sul luogo della festa arrivassero i carabinieri, il bersaglio più idoneo per un loro eventuale exploit di bullismo sarebbe esattamente uno come lui – capelli blu e maglie sdrucite da zecca, il corpo gracilino da ultimo posto nella classifica umana, scheletrico ovunque se non fosse per la pancia, un ritardo nello sviluppo che l’ha trasformato in un incel modello, la faccia erosa dall’acne e dall’abuso di cortisone, gli occhi che sembrano sempre sull’orlo delle lacrime: una perfetta vittima del sistema che chiunque potrebbe immaginare vivere con un fucile carico sotto il letto, aspettando il momento giusto per compiere la strage che renderà famosa la Valle per questo, solo per questo.

«Hai fatto tutto tu e ancora grazie; ma: se per caso anche Vinnie volesse qualcosa di oggi da conservare, vuoi mica rischiare che quel qualcosa sia il ricordo di dieci sconosciuti che, quando fanno per andarsene e tu gli chiedi: “Vuoi che ti saluto Vinnie?”, quelli fanno: “Vinnie chi?”»

Raul schiude appena le labbra.

«Che ti frega. Tanto sarà così marcio che non ci capirà un cazzo.»

Adamo sbuffa, lasciando che il bruxismo diurno di Raul riempia il vuoto di parole generato dalla sua caustica profezia. A ogni curva fissa di sfuggita l’amico, come bisognoso della sua reazione.

Più che guardare, gli occhi di Adamo sembrano sempre un principio di naufragio.

«Ci tiene a vomitare per noi, lo conosci» dichiara perentorio Raul. «Vomitare è il suo modo per dirci grazie. Figurati stasera» conclude, borioso e fiero. «Se ognuno fa il proprio, non ci sarà nessun problema.»

Sembra certo di ciò che dice, Raul, per questo fa su e giù con la testa mentre parla.

«Quel posto ha qualcosa di magico, di rivelativo. Lo sento» chiosa assolutista.

Agli occhi dei suoi amici, Raul sembra sempre il sicuro del gruppo, quello che non ha mai timore di niente, né della legge né della morte, forse perché ha quella linfa vitale, quel dna là, di chi è nato nel luogo dove negli anni Novanta certi ragazzi, che avrebbero potuto essere suoi zii, gettavano sassi dai cavalcavia dell’A7 aggredendo spavaldi il senso della vita.

O forse è solo perché ha un altro sangue, il proprio.

Il padre aveva viaggiato per anni alla guida di un autoarticolato.

Tortona, Slovenia, Tortona, Russia, Tortona, Catalogna, Tortona, sempre Tortona.

Quando i giornali non parlavano d’altro che di quegli omicidi assurdi, pietre enormi scagliate contro parabrezza vittime del caso, Raul non capiva davvero cosa stesse succedendo, ma la mamma, come recitasse una sorta di preghiera, cantilenava uno speriamo bene talmente ripetitivo da riuscire a calmarlo.

Ma mai fino in fondo.

Raul temeva che qualcosa di simile capitasse anche al suo papà, poco prima dell’uscita dal casello: un sasso in pieno giorno, in piena faccia, e da quel giorno, ogni giorno uguale al precedente, fino a sperare di fare prima possibile la sua stessa fine.

Lo vedeva solido come una montagna il padre, e, come una montagna, altissimo; lo chiamava così, Altissimo, lo stesso nome della vetta da cui Michelangelo aveva ricavato il marmo per i suoi capolavori.

Altissimo aveva attraversato l’Europa per tutti e cinque gli anni della sua prima infanzia. Al suo rientro, stipava regolarmente nella testa di Raul bambino decine di storie, leggende dell’Est Europa, avventure scandinave di ciucche epocali e colleghi facili all’uso delle armi, misteri del folclore spagnolo, trucchi e consigli ai limiti del legale per sopravvivere alle regole non scritte della strada, episodi deplorevoli e truculenti che sua mamma non voleva il suo bambino conoscesse, istantanee di orrore che, col tempo, avrebbero rischiato di trasformare la fantasia di Raul in un’inesauribile fucina di traumi. Tra quelle storie non ce n’era mezza che fosse salvabile: luci dalle sembianze umane che uscivano dai cadaveri e sembravano chiedere misericordia, neonati fatti a pezzi da lamiere contorte, padri in fiamme che urlavano no, Dio, ti prego, no a ripetizione, mentre altri conducenti iniziavano a investirli, qualcuno si accorgeva della sciagura in corso ma ormai era troppo tardi, sbandava, frenava, tentava di evitarli, provocando tamponamenti a catena che creavano un nuovo ciclo di roghi umani.

Quando era così piccolo, Raul non aspettava altro che il suo ritorno a casa, una nuova avventura fantasmagorica e lui, Altissimo, che l’abbracciava e gli prometteva: un giorno verrai con me, e sarà tutto vero.

«Piuttosto: dimmi della musica.»

Raul si illumina.

«Ho chiamato un tizio di Chiavari che ha fatto qualche serata in Sardegna, e l’estate scorsa persino una data a Ibiza: è stato il suo massimo ma non ci marcia. Di solito, è resident ai Castelli. Ci costa un cazzo, qualche cento e bon. Dove ha detto che ci raggiunge la presa male?»

Adamo sogghigna amaro.

«Raggiungerci, bella battuta. Figurati se quella fa due passi per noi. Mi sta mandando dei messaggi. Dice che è alla Pam, di passarla a prendere ma di non parcheggiare.»

«Sarebbe più chiaro comunicasse in morse» sibila Raul.

«Dice così: “Non state a cercare parcheggio, ci vediamo all’ingresso, sotto la grande scritta verde del super.”»

«Solo questo?»

«Aspetta. Sta ancora scrivendo. Ecco, lo sapevo. Gesù, che ragazza idiota.»

L’episodio decisivo era avvenuto una domenica diversa dal solito: c’era la festa delle castagne, c’era suo padre a casa, sarebbero andati in collina, niente trasporti per quel weekend, la fatica che poteva andare in vacanza, e loro tre insieme, per un giorno intero.

Nel dormiveglia del primo mattino, Raul si alza insieme al sole. La luce che filtra dalla finestra gli rammenta delle tapparelle dimenticate su a tre quarti. Ancora nel sonno, guarda l’alba farsi largo tra le file di condomini che separano casa sua dai campi di barbabietole fradici di galaverna, laggiù, al confine della consapevolezza, dove il perimetro tracciato dalla modernità comincia a diventare un’eco distorta, inverosimile.

Dopo almeno mezz’ora di stasi, riconosce in lontananza i passi lenti del padre sancire il suo arrivo in cucina, seguiti dal suono che fa la madre quando s’infila la vestaglia di seta consunta, il fruscio del raso contro il pigiama di fattura scadente mentre esce dalla camera da letto, il cigolio morbido della porta del bagno che si chiude dietro le sue spalle asciutte. Gli era sempre piaciuto aspettare che lo chiamassero e, sottovoce per paura di turbarlo, sentirsi chiedere se fosse già sveglio, se avesse fame, se volesse raggiungerli per fare colazione. In quei casi, la sua risposta preferita era stare zitto e, credendo di cogliergli di sorpresa, spuntare all’improvviso a ridosso dei fornelli, prendere la propria tazza del cuore, iniziare a straparlare con la faccia subito nel latte, stando attento a non esagerare, per non costringere suo padre a riprenderlo bonariamente, ehi, rischi di soffocare, fai con calma, non ti insegue nessuno. A Raul piaceva da sempre accogliere le ramanzine del papà, dimostrarsi obbediente: era il suo modo per dirgli ti voglio bene.

Mentre aspetta la chiamata, lascia che lo sguardo si perda nello scivolio a zig-zag che fa la rugiada sul vetro della finestra. È in attesa che evapori col caldo del giorno, che il tono grave della sua voce lo convochi a rapporto, quando d’improvviso lo sente urlare.

Appena fuori dalla cameretta, nella luce oblunga che taglia in due il corridoio, del suo corpo inerme a terra intravede solo le gambe lunghe, distese e abbandonate davanti alla soglia della cucina: sembrano proseguire nell’ombra che producono fino a rendere il padre un gigante spropositato. Altissimo, ma orizzontale.

Senza sapere perché, Raul comanda alle proprie di correre verso di lui.

Come gli ha detto la nonna prima di andarsene, la paura è il cervello che va in tilt e funziona al contrario: l’irrazionale prende il potere, l’imponderabile detta legge al corpo. Raul ha imparato questa lezione, tanto da sapere molto bene cosa voglia dire avere a che fare con il proprio istinto. C’erano state volte in cui evitare il protezionismo della mente gli aveva salvato la vita. Altre, invece, era stato proprio fermarsi a ragionare la sua salvezza.

Ma questa volta è diverso.

Questa volta, è la morte a dare le carte.

Quando è così, gliel’ha insegnato per bene suo padre, ogni scelta è comunque sbagliata.

Per questo, gli è impossibile rallentare, riflettere, cercare di capire se sia un bene oppure no andare a soccorrerlo non sapendo cosa fare, o perlomeno cosa lo aspetti.

Arriva in cucina tirando su col naso, la faccia stravolta dall’eccesso di rossore. Appena lo vede, appena si rende conto che è vero, si chiede se questa sarà sul serio la sua fine. Un uomo come lui non può essere così fragile, non può crollare e basta, game over. Dopo, cosa si fa? Come vivranno lui e la mamma? Vivranno?

Con la testa sotto assedio, in un istante Raul si rende conto che nessuno è eterno, nemmeno tuo padre. Con quelle braccia aperte come un cristo moribondo qualsiasi, mamma che entra in cucina e prova ad alzarlo, le sue ginocchia che non ce la fanno a staccarsi dal pavimento, il genitore gli ricorda una scultura ammirata in quella basilica dov’erano andati ormai l’anno passato, l’ultimo giorno libero che avevano trascorso insieme fino a oggi, la prima volta della vita in cui aveva promesso di fare il bravo: la Maddalena (o era la Madonna?) sorreggeva il corpo di Cristo, la carità, la clemenza, una cosa del genere, il nome dell’opera non gli si è fissato nella memoria. Ciò che ricorda è la sensazione di resa che gli aveva trasmesso e che adesso riaffiora da questo maledetto incidente casalingo, la vita come una banale custodia di carne, ossa e capolinea.

Appena si accorge che Raul manco si muove e resta lì, immobile, ai bordi del tinello, invece che carezzarlo, sussurrargli parole di conforto, rassicurarlo, la mamma gli urla di muoversi, prendere il telefono, chiamare l’ambulanza. Raul ha undici anni ma capisce subito, a pelle, che se non si sbriga rimarrà per metà orfano. Di recente ha imparato che l’ambulanza è un numero da memorizzare, una filastrocca che salva la vita. Gliel’hanno insegnato qualche settimana prima a scuola, e da allora non gli è mai più uscito dalla testa. «L’ambulanza ha un codice magico» li aveva esortati la maestra, salmodiando la sequenza da digitare in caso di pericolo. Quale occasione migliore per provare che sì, esistono canzoncine che ti fanno sconfiggere l’aldilà?

Tiene la cornetta tra le mani, si concentra, obbedisce alla filastrocca.

Uno, uno, otto / aggiusta ciò che è rotto.

Intanto, suo padre continua a morire.

Mamma ripete a ciclo continuo: è infarto, finché i paramedici non arrivano e dicono: è la schiena, suo marito non è in pericolo di vita.

Così, dopo tanti rimuginii e moltissimi ce la faccio, lasciatemi stare e nuove crisi di dolore, nuovi rimuginii e sempre più ce la faccio, lasciatemi stare, via via più insistenti, rabbiosi e falsi, suo padre alla fine aveva deciso che era meglio dire basta al camion, salvare sua moglie dalla paranoia e costruirsi un futuro tranquillo, la casa di campagna di famiglia come nuova prospettiva esistenziale. In breve, era riuscito a trovare un posto da meccanico nell’unica officina della Valle (i motori sono le uniche cose di cui capisco qualcosa, era il suo mantra esistenziale). L’aveva chiamato reinventarsi e Raul aveva dovuto accettarlo. Come sarebbe stato avere papà a casa? Cosa avrebbe potuto raccontargli di tanto mozzafiato che non riguardasse i suoi viaggi per il continente? Cosa avrebbero perso ancora?

© 2023 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia

(continua in libreria…)

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