Deb Olin Unferth firma il suo secondo romanzo, “Capannone n. 8”, e lo fa con una penna spiazzante, raccontando una storia tutta matta su una sgangherata banda di attivisti che decide di liberare 90.000 galline. Un manifesto politico e un urlo pieno di ironia, che ci costringe a chiederci quanto umani siano questi umani, se non si chiedono mai come può vivere una gallina

Deb Olin Unferth firma il suo secondo romanzo, pubblicato dalla casa editrice Sur e tradotto da Silvia Manzio, e lo fa con una penna spiazzante, raccontando una storia tutta matta su una sgangherata banda di attivisti che decide di liberare 90.000 galline.

Il titolo Capannone n. 8 non può non ricordare Mattatoio n.5 del grande Kurt Vonnegut, e in qualche modo a quello vuole richiamare, perché quel Capannone, il n. 8 appunto, è solo uno dei tanti stabilimenti di un’azienda che commercia galline ovaiole. Sono allevamenti, certo, ma è anche un luogo di morte e frustrazione. Le galline sono dappertutto, sulla copertina del libro, in mezzo a una strada, ad affollare i capannoni, strette una all’altra, senz’altra via di scampo che deporre uova che non coveranno.

Capannone n. 8

Se uno cominciasse a leggere il libro senza saperne assolutamente niente, rimarrebbe disorientato dalla piega che prendono gli eventi. Il primo capitolo è infatti incentrato completamente su quella che per tutto il romanzo sentiremo come la protagonista, Janey Flores, un’adolescente dallo spirito ribelle alla ricerca del suo vero padre, quello che non l’ha cresciuta, e per una strana serie di sfortunati eventi – davvero – rimane intrappolata a vivere con lui.

Come poi un classico romanzo che parla di crescita, perdita e amore diventi un romanzo sull’attivismo animalista e sulla riaffermazione di sé è tutto merito della spirale in cui Olin Unferth trascina il lettore, catapultando Janey, simpatica – e anche, tutto sommato, un po’ viziata – ragazzina newyorkese, dentro le campagne del Midwest americano, nel profondo Iowa, nello squallore della vita di suo padre, e nello squallore delle vite frustrate dei suoi compagni di viaggio.

Perché, nella sua ribellione, Janey si trascina dietro Cleveland, come lei ispettrice al controllo degli allevamenti, che conosceva sua madre e ha fatta assumere Janey; Dill un ex capo di un’associazione ambientalista caduto in disgrazia, travolto dalla fine del suo matrimonio con “il bancario”, il suo compagno da dieci anni; Annabelle, disillusa erede degli allevatori. Ognuno di loro ha un motivo per cui essere profondamente arrabbiato, deluso, ognuno di loro ha un’anima ferita, e ognuno di loro è un personaggio dipinto con affetto, ironia e sapienza da Olin Unferth.

E con ironia e affetto sono descritte anche le galline: chi avrebbe mai pensato che potessero essere creature tanto affascinanti e intelligenti? Così le descrive Dill, l’ambientalista innamorato delle cause perse, chiedendosi: “Lo sapevano che nel giro di qualche giorno le galline conoscevano così bene le sue mani e la sua voce che quando riempiva gli abbeveratoi e versava il mangime lo seguivano per tutto il fienile?”.

Quello che colpisce di Capannone n. 8, che è composto da tanti brevi racconti che sembrano affreschi, scritti con stili diversi, e lingue diverse, con lunghi dialoghi alternati ad altrettanto lunghe descrizioni, è la sua natura frammentata, corale. Più che un romanzo, è un manifesto politico, è un urlo pieno di ironia che ci costringe a chiederci quanto umani siano questi umani, se non si chiedono mai come può vivere una gallina.

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