“L’inchino del gigante – Cinque brevi libri di viaggi e metamorfosi” è una raccolta di scritti, alcuni occasionali altri più organici (conferenze, reportage e racconti) di Christopher Ransmayr, lo scrittore austriaco noto per libri come “Nei mari estremi” e “Il maestro della cascata”, spesso avvicinato a Sebald… Il libro è una sorta di antologia personale, dove riecheggiano gli ambienti e i temi cari all’autore…

“Ero un custode di museo, celibe, senza figli, spesso di cattivo umore e soggetto a incontrollabili attacchi di sudorazione, poco capace di entusiasmarmi per gli esseri umani, ma assai incline ad appassionarmi per le loro opere… Adesso sono un abitante dei mari lontani e il mio habitat va dalle profondità turchesi, verdi e blu oltremare fino alla nerezza senza chiarori degli abissi”. In altre parole, “poco fa custode di museo, ora calamaro di scogliera. Che sia un miracolo?”.

La scena non è (solo) comica, è anche, per così dire, filosofica. Ed è probabilmente uno dei momenti più irresistibili di L’inchino del gigante (L’orma editore) una raccolta di scritti alcuni occasionali altri più organici – conferenze, reportage e appunto racconti – di Christopher Ransmayr, lo scrittore austriaco che abbiamo conosciuto quantomeno per Nei mari estremi, ormai anni fa, il libro che gli guadagnò una forte attenzione internazionale, o di recente, con Il maestro della cascata (i suoi romanzi sono tutti disponibili per Feltrinelli); e cui è stata applicata un po’ abusivamente l’etichetta di postmoderno.

Christoph Ransmayr L'inchino del gigante

L’inchino del gigante – Cinque brevi libri di viaggi e metamorfosi, di Christopher Ransmayr edito da L’Orma, è tradotto da Marco Federici Solari

In realtà, se per postmoderno di intende il privilegio del gioco fantastico e artistico-letterario che manipola a proprio piacere materia e storia, lo scrittore austriaco ne è decisamente lontano. Se invece intendiamo l’ultimo sviluppo del romanzo modernista, nella direzione di libertà della scrittura (della struttura narrativa), allora ne è uno dei rappresentanti di rilievo.

Scrittore del trauma (in questo è stato avvicinato a Sebald, ma non lo è in maniera esclusiva) sia per provenienza geografica che per generazione (nato nel primo dopoguerra ha dovuto misurarsi come altri con la “barbarie della storia”, soprattutto ovviamente il nazismo, una “barbarie” da serbare nella memoria attraverso la scrittura), nei suoi romanzi apre talvolta scenari apocalittici di umanità offesa o post-umani, ma anche derive temporali dove il presente e il passato si compenetrano non tanto nella narrazione della storia quanto nella sua proiezione fantastica.

Questo è particolarmente vero per Nel mondo estremo, ma vale anche e forse più, poniamo, per la spedizione al Polo Nord doppiata ancora una volta nella rievocazione fantastica di Gli orrori dei ghiacci e delle tenebre, il suo esordio, e in genere per tutta l’opera narrativa.

L’inchino del gigante è invece una raccolta di vari testi dal sapore saggistico ma non solo, usciti separatamente e qui raccolti come in una sorta di antologia personale, dove riecheggiano gli ambienti e i temi cari all’autore: soprattutto si direbbe l’acqua, nelle sue declinazioni più diverse.

L’acqua degli uragani, dei fiumi, dei mari, l’acqua straripante o portata dal vento che si scioglie in nuvole di vapore, l’acqua come elemento tematico non solo per Il maestro della cascata.

Ma anche i viaggi. Ransmayr ci porta per il mondo, dalle montagne del Tibet alle scogliere dell’Irlanda, dai gorilla dell’Africa alle luci di Hong Kong, quando su una giunca in occasione di una festa locale che prevede l’incendio di una intera città di carta, il suo amico Hans Magnus Enzensberger recita una parte del poemetto La fine del Titanic (da qui il titolo del libro).

Ci sono i suoi viaggi e quelli altrui, fatti propri attraverso la rievocazione fantastica. E i viaggi immaginari: “Chi si mette in cammino non attraversa solo territori sconosciuti, ma sempre anche il proprio stesso animo, e spesso è ancora (o di nuovo) molto lontano anche se è ancora (o di nuovo) accucciato in un angoletto di casa propria”, magari in un corridoio della Fiera di Francoforte; e le tragedie e commedie immaginarie inventate camminando o riparandosi dal freddo con un amico regista, che mai sarebbero andate in scena.

È infatti, questo libro, una sorta di teatro, come nella bellissima rievocazione di un palco di pietra sulle scogliere di Glaisín Álainn dove si riunivano pastori, operai, bottegai, insomma povera gente, a cantare e narrare storie vere (o quasi), dedicate alle “guerra civile e alle vittime dei cecchini e delle bombe dell’ira” e “non si dimenticava mai a quale spietato teatro appartenessero le storie che ci si raccontava d’inverno”, quando ci si raccoglieva invece “attorno al focolare” di chi quella piattaforma aveva eretto (un certo Liam O’Shea, poi emigrato in Australia): né “i balli e i canti che si mettevano in scena sotto il cielo aperto nei mesi estivi”.

È anche un’autobiografia indiretta, una porta aperta al lettore per famigliarizzarsi con il Ransmayr scrittore sì, ma anche col ragazzo cresciuto in un borgo dell’Alta Austria e sbarcato a Vienna, stordito da quella che gli pareva un’immensità: e approdato alla scrittura con un carico di storia, da quando, a pochi anni d’età, origliava uno strano rituale del genitore che, chiuso nel piccolo bagno, parlava tra e sé in una lingua sconosciuta. Era il russo, appreso per amore dei grandi autori e poi esercitato durante la guerra, come interprete, soldato della Wermacht (aveva rifiutato categoricamente di servire come ufficiale, così come aveva respinto ogni opportunità offerta dal potere nazista) prigioniero dei sovietici.

Le pagine sul padre sono di orgoglio e commozione: per un uomo onesto, che Ransmayr paragona, anzi identifica, con il personaggio di Heinrich von Kleist nel romanzo omonimo, ovvero “Michael Kohlhaas, un uomo morto per la sua fede inscalfibile nella giustizia terrena”. Sviluppa questo tema in un lungo discorso in occasione del premio Kleist a lui conferito, e che si intitola significativamente “Sulla bara di un uomo libero”; e da un certo punto di vista, è innegabile che tutti gli scritti di questa sorta di zibaldone parlino di libertà: persino quello non proprio kafkiano del custode di museo tramutatosi in polpo da scogliera, che nella sua nuova vita, in fondo apprezzabile, conosce a poco a poco altre piccole creature del mare con la sua stessa storia, entra in una sorta di contatto telepatico con loro, le studia e si studia, cercando i motivi della trasformazione. A giudicare dalle vicende altrui, simili peraltro alla sua, sembra un beffardo contrappasso dantesco, motivato da un’irresistibile avversione all’acqua (ai liquidi in generale, c’è anche un ex-idraulico poco efficace nel bloccare le perdite di rubinetti ed elettrodomestici; e di suo, infine, con problemi di prostata).

Il polpo da scogliera giunge però a una conclusione più raffinata, capendo che la metamorfosi è “condizionata soprattutto dal grado di passione con cui si viveva il rapporto con tutto ciò che scorre e scroscia”; non solo, ma è destinata a proseguire “verso le molecole più elementari, dove ci attende la liberazione da ogni legame: la metamorfosi in uno sciame di particelle indivisibili”.  Non è un’involuzione, ma un’evoluzione, per ricominciare il ciclo vitale un giorno lontano e “creare fenomeni e modi della materia chiara e oscura mai visti o sognati prima, generando figure e creature più grottesche e malvagie, ma forse […], forse però anche più affettuose e benevole di quanto noi non siamo mai stati”.

Ora, se si pensa come anche l’autore viva in quanto tale un alto grado di passione si direbbe atavica verso tutto ciò che scorre e scroscia – l’amato padre, per esempio, era “primogenito illegittimo della figlia di un guardiano della chiusa”: ovvero lo stesso ruolo del protagonista di Il signore della cascata –, anche la bella favola marina entra, per così dire, nella sua autobiografia per interposto saggismo.

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Fotografia header: Christoph Ransmayr nella foto di François Klein.

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