“Tempesta”, il romanzo d’esordio di Camilla Ghiotto, è la storia di un padre e di una figlia che ardono dalla voglia di conoscersi, ma sono condannati soltanto a sfiorarsi. Su ilLibraio.it la riflessione dell’autrice sull’essere figlie e su cosa significa crescere, in cui cita le opere di autrici e autori di ieri e di oggi, come David Foster Wallace, Jonathan Franzen, Gabriel García Márquez, Natalia Ginzburg e Marco Missiroli

La prima volta che mi sono sentita sola è stata quando mia madre mi ha mandato al bancone del ristorante a chiedere il conto. Avevo sei anni e i passi percorsi senza di lei, ripetendo tra me e me la breve frase che avrei dovuto dire al cameriere per non sbagliare, sono stati spaventosi. Poco dopo, tornando al tavolo con lo scontrino in mano, ho pensato di essere diventata grande proprio in quel momento.

La stessa paura densa di eccitazione l’ho provata molti anni più tardi, la sera prima del mio trasloco a Milano, dove avrei studiato Filosofia.

Brevi interviste con uomini schifosi

Per sempre lassù, uno dei racconti di Brevi interviste con uomini schifosi (Einaudi) di David Foster Wallace, parla di un ragazzo che nel giorno del suo tredicesimo compleanno decide di salire sul trampolino più alto della piscina senza dirlo ai genitori. Passa davanti ai loro lettini e non si ferma, sale la scala a pioli. Dall’alto vede la realtà che conosce da sempre, ma immobile, i rumori lì non arrivano. Sta per tuffarsi. “Quando torni giù cambia tutto”, scrive Foster Wallace.

Da bambini sembra impossibile esistere separatamente dai genitori. Poi accade, nasce il desiderio sorprendente di compiere qualcosa di soltanto proprio e si scopre la possibilità di decidere chi diventare.

Le Correzioni, J. Franzen

In Le Correzioni (Einaudi), Jonathan Franzen scrive che tutta l’esistenza di Gary è costruita come correzione di quella del padre. Le correzioni sono lo spazio dove provare a essere migliori di chi c’era prima. Realizzandole ci si libera dal mito delle radici, che non sempre sono un destino da assecondare: laddove quelle radici rappresentano una condanna, lo strappo è netto, uno stravolgimento, altrimenti le correzioni sono lievi, un insieme di accorgimenti che danno vita a un dolce, ma necessario, passaggio di generazione.

Cent'anni di solitudine

La casa di José Arcadio Buendìa, in Cent’anni di solitudine (Mondadori) di Gabriel García Márquez, sta per essere dipinta di bianco quando appare un’ordinanza che obbliga gli abitanti di Macondo a dipingere le case di azzurro. L’autore è Il correggitore, un uomo mandato al villaggio dal governo per fare le proprie correzioni. José Arcadio si arrabbia, fa un resoconto di com’è nata Macondo – è stato lui a fondarla –, illustra le migliorie fatte nel tempo: “Qui non c’è niente da correggere” dice.

Proporre delle correzioni significa mettere in discussione la realtà così com’è, sfidarla. I figli lo fanno di continuo, incarnano lo scarto tra passato e futuro che rende possibile ogni cambiamento. Non si limitano a ricalcare strade già percorse, ne cercano di inesplorate. Immaginano come vorrebbero diventare e mettono in atto le correzioni che servono per essere diversi.

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Tuttavia, essere figli vuol dire anche, dopo essere stati lontano da casa a costruire la propria vita con le proprie mani, tornare e accorgersi che qualcosa resta, un residuo vivo.

Basta evocare a cena uno degli episodi che tutti sapete a memoria, come il giorno in cui tua madre ti ha cercato per ore e tu eri nascosta in cantina a bere limonata e sfogliare figurine, per incontrarvi ancora.

“Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati, sono come i geroglifici degli egiziani o degli assiro-babilonesi, la testimonianza di un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo”. Lo scrive Natalia Ginzburg in Lessico famigliare.

A casa, ti riconosci nella foto sul frigo: hai otto anni, un cappello ti scivola sugli occhi, tuo padre dietro di te sembra distratto. Ha la cravatta, ma siete in montagna, c’è un bosco sullo sfondo. È tua madre a scattare la foto, ricordi che ti sgridava perché masticavi una gomma facendo facce strane. Il sorriso immortalato ti è costato l’averla ingoiata per dimostrare che aveva torto.

avere tutto marco missiroli

In Avere tutto (Einaudi) di Marco Missiroli, Sandro torna a Rimini per far visita al padre. Lui lo rimprovera per le luci lasciate accese nelle stanze dove passa, proprio come faceva quando Sandro ancora viveva lì.

Tornare a casa è trovarsi in un tempo che pareva non esistere più, eppure resiste tra voi, custodito nelle parole, nei gesti che quando crescerai qualcuno ti farà notare essere appartenuti a loro: “Lo diceva tuo padre” se nei giorni freddi dirai che c’è un tempo da lupi, “Faceva così tua madre” se allargherai le braccia quando sarai delusa.

Essere figli significa desiderare il futuro e, al contempo, conservare le tracce di un passato che non muore. Così, anche a quarant’anni, il primo giorno del tuo nuovo lavoro ti sorprenderai a camminare proprio sul ciglio del marciapiedi, allineando i passi in modo innaturale come per tracciare una linea retta invisibile e in un attimo ricorderai che così faceva tuo padre, quand’era emozionato.

Camilla Ghiotto Tempesta Salani

IL LIBRO E L’AUTRICE Camilla Ghiotto, scrittrice esordiente di 23 anni, studia Filosofia a Roma; suo padre Renzo, scomparso pochi anni fa, è stato partigiano, e con il soprannome di “Tempesta” ha comandato una brigata sull’altopiano di Asiago.

Il romanzo d’esordio di Ghiotto si intitola proprio Tempesta (Salani), ed è la storia di un padre e di una figlia che ardono dalla voglia di conoscersi, ma sono condannati soltanto a sfiorarsi. Novant’anni lui, diciotto lei, imparano ad ascoltarsi soltanto negli ultimi mesi di vita dell’uomo, durante i quali la ragazza cercherà di riannodare non soltanto i fili del loro rapporto, ma il legame tra il suo presente e la memoria collettiva.

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