“Con questo libro volevo raccontare una storia semplice nel modo più denso possibile. Volevo che, in poche pagine, si avesse la sensazione di aver letto una vita intera”. In occasione dell’uscita di “Avere tutto”, ilLibraio.it ha incontrato Marco Missiroli. Con lo scrittore abbiamo parlato di gioco d’azzardo (“C’è stato un periodo della mia vita in cui le carte hanno rappresentato un mondo di libertà e di liberazione… e da autore non faccio quasi mai lo stesso libro. Ho imparato a rischiare proprio dal gioco…”), di paternità (“È un affare assolutamente complicato. L’essere diventato padre ha lavorato in me come espansione del cuore dolorosa, non gioiosa”), di invidie letterarie (“Spesso quando leggo penso ‘vorrei averlo scritto io'”), di città che ti accudiscono, di vecchie generazioni, di maschi fragili e di passioni che vengono dal basso: “Se potessi tornare indietro nel tempo e avere più soldi non cambierei nulla. Mi comprerei solo più Sneakers. Sono una delle mie passioni. Dopotutto sono sempre un ragazzo di Rimini, ho la festa nelle scarpe”

L’appuntamento è al bistrot Le Vert, a Milano. Un posto dall’aria parigina, in uno dei quartieri più belli della città. Ma è chiuso, saracinesche abbassate, un biglietto che segnala che la riapertura sarà da lì a due giorni. Nei dieci minuti in cui aspetto Marco Missiroli, non ho mai visto tanta delusione negli occhi di chi passa e si ritrova a leggere quell’avviso.

Quando arriva, anche lui ci rimane male ma non si lascia amareggiare: è sereno, felice, appagato. Il giorno dopo uscirà il suo nuovo romanzo, Avere tutto, per Einaudi, che è stato accolto con una recensione a dir poco entusiasta, firmata da uno dei più importanti scrittori contemporanei: Domenico Starnone.

avere tutto marco missiroli

Ne parliamo per un po’, mentre passeggiamo e ci dirigiamo verso un altro bar, uno di quelli con le lucine accese anche di mattina, la ghiaia a terra, sdraio a strisce e ombrelloni da stabilimento balneare. Un arredamento che stona con l’ambiente metropolitano e con l’autunno appena iniziato, ma che si accorda straordinariamente al cuore della sua storia: Rimini, la città dove lo scrittore – molto apprezzato per i suoi precedenti romanzi, tra cui Il senso dell’elefante (Guanda), Atti osceni in luogo privato (Feltrinelli) e Fedeltà (Einaudi) – è nato (il 2 febbraio 1981) e cresciuto.

La giornata è fresca, puro settembre, le strade appena svuotate dai lavoratori, Missiroli parla con fare profondo e flautato, compatto e deciso, nessuna grinza nella sua voce.

È forse questo che si prova ad avere tutto?
“È vero, sono felice. Scrivere questo libro mi ha dato una sorta di nuovo codice letterario. Ho capito che quando scrivo voglio essere vero”.

Perché, nei precedenti romanzi non lo era stato?
“Certo, ma c’erano anche tanti altri fattori. Volevo che questo romanzo partisse da una congettura di verità anche se, come dice Thomas Bernhard, è impossibile raccontare la verità, perché nel momento in cui lo fai metti un filtro differente rispetto a quello che è all’accadimento reale”.

E dunque?
“Si può arrivare alla realtà del cuore, e cioè dire come stanno le cose secondo te. Questo è già un principio di assoluta verità rispetto al passato”.

Eppure Atti osceni in luogo privato e Fedeltà sembravano libri molto veri.
“Erano libri di non verità pur dicendo la verità, perché erano costruiti secondo una storia. Anche questo nuovo romanzo ha una storia, ma è una storia che attinge direttamente al concetto di radice”.

marco missiroli gettyeditorial 30-09-2022

foto GettyEditorial

Questa storia inizia quando il protagonista decide di tornare nella città in cui è cresciuto, Rimini, per il compleanno di suo padre.
“Sono partito da un’esigenza incredibile, che è anche l’esigenza più semplice del mondo. Un figlio torna da Milano a Rimini. E lì, nella città dov’è cresciuto, c’è suo padre che lo aspetta. Non sapevo nient’altro. L’incipit era esattamente quello di adesso. ‘Mi telefona mentre sono al supermercato’. Poi ho iniziato a immaginare tutto il resto, ma una cosa la sapevo: sapevo che entrambi avevano due grandi segreti”.

Uno di questi è il gioco d’azzardo.
“C’è stato un periodo in cui ho giocato e in cui le carte rappresentavano un mondo di libertà e di liberazione. È stata una parentesi della mia vita meravigliosa, e pericolosa”.

Che effetti ha avuto sulla sua scrittura?
“Se ci penso bene ogni romanzo che ho scritto cambia totalmente, e forse questo l’ho imparato proprio dal gioco. Rischio, non faccio quasi mai lo stesso libro. Ci sono sicuramente temi e strutture sentimentali ricorrenti, come la mancanza del padre o la rincorsa verso il padre. Però cambio sempre e questo è un po’ come quando ti arrivano le carte e tu devi trovare il tuo gioco, ogni volta diverso”.

Ha parlato del rapporto con il padre. Anche la paternità in effetti è un evento che la riguarda da vicino.
“Per me la paternità è stato un affare assolutamente complicato. Credo che questo si percepisca nel libro. Non ho mai provato una gioia diretta nell’essere diventato padre. Se mi chiedessero ‘preferisci scrivere o accudire?’, per lungo tempo non avrei avuto dubbi: accudire è l’inferno, scrivere il paradiso. Questo per dire che, in me, la paternità ha lavorato come espansione del cuore dolorosa. Ho iniziato a scrivere quando la bambina era appena nata, forse nella mia mente ancora prima”.

Ma nel romanzo la paternità viene raccontata anche da un’altra prospettiva: in fondo è il racconto di un figlio che diventa genitore del proprio padre.
“A me è successo il 5 giugno del 1999, quando mio padre ha avuto un infarto, non mortale, che però l’ha reso ai miei occhi più bambino, e quindi più figlio. Avevo diciotto anni. Dovevo affrancarmi da casa, e invece mi sono ritrovato bloccato. Non fisicamente, perché comunque sono andato a Bologna a studiare, ma mentalmente sì. Questo evento mi ha fatto percepire un dolore diverso, che è quello della protezione e della preoccupazione”.

Non deve essere stato facile.
“Ci si rifiuta di diventare genitori dei propri genitori per un periodo, si tenta di rimanere figli. E sarebbe giusto e più naturale rimanere figli fino alla fine. Ma non si può. E allora lì capisci che il mondo è una questione di accudimento dato, e non solo avuto”.

“Cura” è una parola chiave nel suo romanzo. Di solito è associata alla sfera femminile, mentre in questo romanzo ci sono solo uomini.
“Sì, c’è tantissima cura nel libro, ma tantissima cura sofferta. Sandro accudisce il padre, ma a un certo punto dice all’infermiere ‘io non ce la faccio più’. Quando tiene in braccio una bambina piccola non sa nemmeno come stringerla”.

Chi sono questi personaggi che ha voluto raccontare?
“Sono maschi intermittenti, fragili, incompiuti. Nel momento in cui hanno perso le loro compagne hanno acquisito l’intermittenza del cuore, ma anche se non esistono più, quelle donne sono lì, in fondo, che lavorano silenziosamente. Sono state assorbite nei loro gesti e ora che padre e figlio si sono ritrovati, possono ricostruire la famiglia che hanno perso. È un libro che deve alle donne perché lo strutturano in basso rilievo, vegliando su uomini che affrontano i loro demoni”.

Da dove è nata questa urgenza?
“Non c’è niente di peggio che vedere un maschio smarrito, perché ti accorgi quanto è bambino, ma anche quanto può essere prevaricatore. Questa è una differenza sostanziale, secondo me, perché le donne quando sono smarrite crescono, il maschio quando è smarrito non sempre cresce, a volte diventa davvero terrificante. Invece mi piaceva vedere due maschi smarriti che, insieme, si completassero nel nome del femminile. E che diventassero un’unica criniera familiare”.

È un libro di vita o di morte?
“È un libro di vita, perché la vita spinge di più della morte, riesce a soggiogarla”.

Avere tutto o rischiare di perdere tutto?
“In questo libro ce l’ho molto con la vecchia generazione. Perché la generazione del boom ha avuto un potere d’acquisto economico, emotivo, mentale e sentimentale differente rispetto a noi. Era una generazione che poteva permettersi di avere tutto per davvero, mentre noi, per avere qualcosa, rischiamo tutto”.

E lei cosa ha rischiato scrivendo questo libro?
“Questo romanzo è effettivamente un gioco d’azzardo: volevo raccontare una storia semplice nel modo più denso possibile. Volevo che, in poche pagine, si avesse la sensazione di aver letto una vita intera”.

Com’è stato?
“Bellissimo. Tre quattro righe al giorno per tre quattro anni con una forza quieta, e non con la foga della scrittura, con l’energia che aveva per esempio Atti osceni o il calore bianco che aveva Fedeltà. Hai presente quando ti confidi con un amico? Ecco, dire la verità nient’altro che la verità. E da lì non puoi sfuggire”.

Lei è un tipo invidioso?
“Direi di no, ma spesso quando leggo penso ‘vorrei averlo scritto io'”.

Con chi le capita?
“Con i più grandi. Cormac McCarthy, Domenico Starnone, Annie Ernaux. Mi è capitato leggendo La città dei vivi di Nicola Lagioia. Mi capita con Carrère, ma soprattutto con Michel Houellebecq“.

Parliamo di Rimini, la sua città, a cui dedica il romanzo.
“Nutro un amore folle per Rimini. Non c’è niente da fare: man mano che te ne vai dalla provincia, crescono l’attrazione e l’affetto nei suoi confronti”.

E Milano?
Milano è una città che se la prendi male amplifica i dolori della vita. Ma se ti affidi a lei, alla sua segretezza, alla sua passeggiabilità, ti cura. Rimini è una città di provincia e, in quanto città di provincia, ti svela sempre. Le tue lacrime sono abbastanza visibili. A Milano no. È come se ci fosse una sorta di complicità, della serie ‘quell’uomo sta soffrendo, magari gli acuisco la solitudine, ma lo tengo con me'”.

Nei suoi romanzi lei dà grande attenzione alla descrizione della città.
“Pensa invece che ho iniziato i miei libri in città non città. In luoghi non citati. È assurdo. Poi una volta ho incontrato Giorgio Fontana, un mio grande amico, che prendeva appunti sotto una via. E gli ho chiesto ‘ma che stai facendo?’. E lui mi ha risposto: ‘La città deve essere precisa’. In quel momento ho avuto un flash. Mi sono detto ‘ci vuole coraggio a costruire una città che diventi precisa’. E penso che da Atti osceni non abbia mai smesso di farlo. I miei libri sono mappe della città”.

Missiroli, cosa farebbe con metà dei suoi anni e un milione di euro?
“Avrei 21 anni, che è stato il momento in cui ho deciso che la letteratura sarebbe stata la mia vita. Rifarei tutto quello che ho fatto, ma con un paracadute economico per essere più sereno. Credo non mi comporterebbe troppe variazioni di tema, ma forse viaggerei di più. Non ho viaggiato un po’ per mancanza di avventura, un po’ per i soldi”.

Nient’altro?
“Mi comprerei più Sneakers. Sono una delle mie passioni. Dopotutto sono sempre un ragazzo di Rimini, ho la festa nelle scarpe”.

GLI APPUNTAMENTI CON I LETTORI – Domenica 2 ottobre Marco Missiroli presenta il suo romanzo alla Feltrinelli di Piazza Piemonte, a Milano, con Daria Bignardi e Vittorio Lingiardi. Il 6 ottobre è al Circolo dei lettori di Torino, con Paola Gallo e Federica Manzon.

Scopri le nostre Newsletter

Iscrizione alla Newsletter
Il mondo della lettura a portata di mail

Notizie, approfondimenti e curiosità su libri, autori ed editori, selezionate dalla redazione de ilLibraio.it

scegli la tua newsletter Scegli la tua newsletter gratuita

Fotografia header: Marco Missiroli nella foto di Mattia Zoppellaro

Abbiamo parlato di...